Segesta, all’alba con l’Odissea

 

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(7 agosto 2015) – Un fluminare di formiche al buio, un buio che cede lentamente cielo ai colori e quindi inizia il canto. “Via, navigammo di là, più oltre”, comincia il nono dell’Odissea, l’“aurora dalle dita di rosa” a fare sfondo da scenario naturale, il pubblico raccolto in silenzio a semicerchio e l’accendersi del giorno.

Così venerdì 7 agosto 2015 si è assistito all’albeggiare al teatro di Segesta. “All’alba, l’Odissea” è stata una recitazione di brani del nono e dodicesimo canto dell’Odissea, seguendo la traduzione in esametri di Daniele Ventre.

Vincenzo Pirrotta, affondando le mani nella tradizione, riporta a galla il respiro del tessuto di canto popolare e cunto; arricchendo la sua interpretazione di toni rauchi o sibillini, passando dalla sinistra voce del Ciclope alle blandizie delle sirene, dalla limpida voce di Ulisse, voce di ragione e d’ingegno, alla serrata argomentazione farnetica e calcolante di Euriloco.

Lo spettatore si è trovato nel bel mezzo di una singolare coincidenza: l’accendersi dell’alba da cui divampano le luci del giorno, le ore del giorno, le vicende dell’uomo e l’accendersi del canto che s’immerge e t’immerge nel dischiudersi di storie note e ignote, nella discesa in antri di paure ancestrali e rivalse irraggiungibili, nel buio del pericolo e nelle false luci della menzogna. Nella prova e nella penuria.

Respirare le gesta di Ulisse e dei suoi compagni, condividerne l’energia. E l’affrettarsi dei marinai che “coi remi battevano l’onda canuta”. O l’arrivo del mostro: “e l’aspettavamo seduti, dentro, e arrivò”, “svettò il mostro dal cuore spietato” e quindi “li divorò da leone montano”. La paura, l’angoscia, ma anche la vendetta: sentiva Polifemo chiamare invano Nessuno “e intanto rideva il mio cuore”. Fin quando “giunti che fummo non troppo lontani da grotta” gli rivela il suo nome: “Odisseo, eversore di rocche”.

Oltre all’episodio ciclopico, è stato letto il canto dedicato a Scilla e Cariddi, in cui Ulisse perde molti compagni, rapiti per sempre da Scilla: “fu la più triste sventura che avessero visto i miei occhi”.

Non a caso i canti letti sono ambientati – secondo la tradizione – in Sicilia. “Raggiungerai la Trinacria, un’isola:/ qui numerose pascolano le giovenche del sole/ e floride greggi”. “Tutti ammirammo l’isola e ci ammaliammo di essa”. Un omaggio alla terra che si squadernava sotto gli occhi degli spettatori nel lento svelarsi del giorno.

Uno spettacolo silenzioso, quello dell’alba a Segesta,

dove capita a volte quel tenero sfiorare del capo

di una mano di padre sul crine del suo bambino.

 

Foto di Francesco Marino

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