Crisi dell’identità europea e dell’immigrazione. Ne abbiamo parlato con Claudio Saita in occasione della “Settimana Europea” in corso a Palermo

 

È in pieno svolgimento a Palermo “La settimana europea”, una manifestazione giunta alla sua decima edizione, che si svolge per la iniziativa del parroco don Felice Lupo nella parrocchia di Nostra Signora delle Nazioni, nella prima settimana di maggio, quella in cui si celebra la festa dell’Europa, Anche quest’anno il cartellone è ricco di iniziative musicali di alto livello che si concluderanno domenica 8 maggio ore 12.00 con la solenne Celebrazione Eucaristica, presieduta da don Felice Lupo e alle ore 21.00 col concerto della Fanfara XII Btg. Carabinieri “Sicilia”, diretta dal M.llo Capo Paolo Mario Sena. Oggi proseguono con un concerto alle ore 21,00 di tromba e organo di Luigi Faggi Grigioni e Luca Scandali. Sabato sempre alle 21,00 un Memorial in onore di Roland Muhr, con un concerto per coro, flauto e organo: Alexandra Muhr, Klemens Schnorr - Anton Ludwig Pfell. Direttore: Flavia Odoroso

L’iniziativa culturale centrale si è tenuta martedì 3 maggio: una tavola rotonda dal significativo titolo: “Europa: codice rosso”, alla quale hanno partecipato il sociologo, Claudio Saita, la ricercatrice, Stefania Schipani e il giornalista, Lorenzo Del Boca.

Ci siamo soffermati a parlare con Claudio Saita, docente di sociologia dell’Università di Catania, dei temi della crisi della identità europea e dell’immigrazione. 

 

Dottor Saita, come si può definire oggi l’Europa?

Come un’area geografica e geo politica di 500 milioni di persone, che rappresentano un terzo degli abitanti di tutto l’occidente, a fronte di 7 miliardi di persone che popolano il nostro pianeta”.

E questi numeri cosa indicano?

Che la sua pretesa centralità politica e culturale deve fare i conti, anche in termini quantitativi, col rapporto che la lega a tutto il pianeta, soprattutto oggi in piena globalizzazione. Ma i numeri non dicono tutto.

Cioè?

L’approccio geo politico ci costringe a guardare la sponda sud dell’Europa e vedere qualcosa che ci riguarda direttamente o indirettamente. Solo per citare i casi più eclatanti bisogna ricordare che diversi paesi dell’area del Maghreb, del Medio Oriente e del Corno D’Africa da anni stanno subendo una fase di destrutturazione acuta che riguarda sia l’ordine regionale che la struttura istituzionale d’interi stati. Vi è poi in corso una guerra non dichiarata per l’egemonia regionale dell’area fra Arabia Saudita ed Iran, fra Iran da un lato e Turchia e Quatar dall’altro. Naturalmente in questo quadro s’inserisce la questione dell’influenza della Russia e degli Stati Uniti.

E questo cosa suggerisce?

I conflitti in corso più che solo fra stati, attraversano etnie, tribù, comunità religiose, si veda ad esempio il rapporto tra sciiti e sunniti, oppure la questione curda, su cui operano poi gli stati che lottano per l’egemonia politica, religiosa e per il controllo o l’acquisizione delle risorse, inclusi gli stati occidentali, Francia e Stati Uniti in primis. Difronte a questo quadro l’Europa non può ritenere che l’unica conseguenza che la riguarda sia l’ingresso dei profughi che scappano da questi territori. Una questione che in termini numerici è ben poca cosa rispetto a quello che accade in questi stati.

Perché, cosa accade?

Accade che la quantità di profughi presenti in questi stati è di gran lunga superiore a quella presente in Europa. Noi pensiamo di essere assediati, mentre i numeri forniti dall’ONU sui movimenti di persone nell’area citata ci dicono che è ben altra cosa.

Ad esempio?

Nella sola Siria vi sono più di 7 milioni e mezzo di persone, profughi interni e circa 3 milioni e mezzo di profughi esterni, provenienti da Giordania, Turchia, Iraq curdo; altri 50 mila siriani hanno chiesto asilo in circa 90 paesi nel mondo. In Iraq nel 2014 vi sono state all’interno circa 2,6 milioni di persone sfollate mentre 426 mila si sono rifugiate all’estero. In Libia gli sfollati interni sono oltre 300 mila, ma bisogna considerare le centinaia di migliaia di persone arrivate dall’Africa e dal Medio Oriente per prendere la strada del Nord. Lo Yemen ospita circa 600 mila rifugiati, dati sottostimati perché antecedenti all’attuale conflitto in corso, di cui poco più della metà interni e gli altri da fuori per lo più dalla Somalia. Ma non è finita.

C’è dell’altro?

A proposito di profughi vi sono paesi con economie ed istituzioni ben più fragili che ospitano moltissimi profughi. La Giordania circa 750 mila, il Libano oltre 1 milione 150 mila, la Turchia si avvia ad i due milioni con gli Accordi con la UE, l’Egitto circa 250 mila e l’Iran circa 1 milione. Questi numeri in molti casi rappresentano la cifra dei conflitti avviati ed abbandonati a se stessi o di questioni storiche irrisolte come l’assetto di Israele e della Palestina. E tutto ciò ha stretta attinenza col terrorismo internazionale

Perché?

E’ indubbio che la crescita tumultuosa del terrorismo di matrice islamica, sia nella forma molecolare di Al Queida, ma soprattutto in quella territorializzata di Al Daesh, ha trovato nel vuoto strategico e nella diretta ed indiretta complicità di alcuni stati sovrani le ragioni della sua apparentemente inspiegabile e tumultuosa crescita nell’area a cavallo fra Iraq e Siria.

Ma torniamo all’Europa.

Tornando all’Europa essa rappresenta una storia di fatti ma anche di sedimentazione di valori e cultura condivisi; è, dunque, una storia umana e mondiale, non in senso olistico, cioè integrato, ma in senso universalistico, di fenomeni di connessione fino ad una certa fase con l’ordine mondiale del secolo breve. Questo ordine mondiale è saltato e fa fatica a venir fuori un’ipotesi di governance multipolare del nuovo assetto internazionale.

Ed allora rispetto ai fenomeni descritti che cos’è l’Europa?

L’Europa è uno spazio per la sua storia ed il suo presente che determina al contempo attrazione e respingimento; un movimento dentro ed un movimento fuori. Questo movimento circoscrive, limita nello spazio e nel tempo, il suo ruolo nel nuovo ordine mondiale che ancora è in fieri: forse citando il giurista americano Wheler si potrebbe dire che dal Caos nascerà l’Ordine. Tenendo presente che questo movimento verso l’Europa, stimato in progress in un flusso di circa 1 milione di persone verso tutta l’area che conta oggi 500 milioni di persone, rappresenta una piccola porzione di un movimento migratorio globale che per l’anno 2015 - Fonte ONU - è stato stimato in circa 60 milioni di persone.

E questi numeri cosa indicano?

I dati stimolano brevi considerazioni in ordine al significato possibile di varie prese di posizione recenti di diversi paesi europei in particolare del Centro e Nord Europa, ma anche della zona balcanica. Mi riferisco al dibattito sulle deroghe a Schengen, alle barriere di vario tipo messe in campo in vari stati, alle decisioni assunte a livello europeo e non portate ad esecuzione, alla redistribuzione in tutta Europa di circa 100 mila profughi, di cui finora poco più di mille collocati; alla rivisitazione delle regole d’ingaggio nel passaggio da “Mare Nostrum” a “Triton” ed infine a “Frontex”. Tutto ciò provoca il disinteresse nelle cronache europee per la mattanza quotidiana di persone nell’area mediterranea e prima ancora verso l’isola di Lesbo. Cito un ultimo dato: ci sono in l’Europa circa 10 mila minori di cui nessuno ha o da notizie.

Possiamo provare a trarre qualche conclusione?

La sociologia offre varie chiavi di interpretazioni e di possibili soluzioni a questo fenomeno che tutto è tranne che imprevisto e imprevedibile. Potremmo riprendere definizioni dell’Europa mutuate dalla letteratura sociologica o di matrice psicanalitica, utilizzando parole chiave come “fortezza”, “silos”, ovvero definizioni come “società securitaria”, “società anoressica”, “società autoimmune”. Parole chiavi o idee forza in questo momento apparentemente vincenti in Europa.

Perché apparentemente?

Perché ragionando in termini di complessità occorre evitare semplificazioni fuorvianti perché il dibattito c’è, le posizioni non sono univoche e le contraddizioni sono evidenti in molti casi. La difesa populistica dello Stato Nazione confligge inevitabilmente con la necessità di mantenere, per citare Popper “una società aperta”, e non andare incontro a costi crescenti ed insostenibili per una limitazione della mobilità. Potremmo anche…

Cosa in particolare?

Riprendere la modernissima affermazione di Goethe secondo cui “è necessario andare nel paese avversario se lo si vuol conoscere”, ripresa in tempi relativamente recenti da Althusser: “è solo sconfinando che si capisce”. Ambedue affermazioni che ci dicono che l’identità, se si vuol evitare che sia semplicemente un “culto delle reliquie” o un tributo rituale ad “un monumento ai caduti” è sempre un’identità “negoziata”, cioè un movimento verso l’alterità. Diversità di storie, culture, persone che si muovono in tutto il pianeta e che solo marginalmente oggi investono la nostra Europa. Lo sconfinamento implica tuttavia l’accettazione che non tutto sia comprensibile ed intellegibile. In altri termini ciò che è complesso diviene complicato quando mancano precedenti.

E in questo caso?

In questo caso, possiamo tentare di ragionare solo in termini di analogia. L’analogia diviene fuorviante però quando gli elementi del nostro presente non sono assimilabili, se non in minima parte, con fenomeni del passato. Non si può dunque analizzare, a mio avviso, in termini di rigorosa comparazione storica (nel 1973 in occasione della crisi petrolifera i paesi del nord Europa chiusero le frontiere alla migrazione europea anche italiana) ciò che sta accadendo, tant’è che il Pontefice ha adottato l’espressione senza precedenti della “Terza Guerra Mondiale”.

E dunque?

Dunque ci sono almeno quattro nodi da sciogliere che riguardano non solo l’Europa, gli stati, ma anche gli europei e quindi anche noi italiani.

Quali sono?

Il primo potremmo definirlo come il bisogno di muoversi. Esso è connaturato alla condizione umana fin dalla sua presenza sul pianeta. Oggi sembra che questo diritto debba essere negato ad alcuni e concesso ad altri. E vedi caso sono gli europei che hanno stabilito che gli altri non hanno diritto a muoversi, mentre loro possono.

E poi?

Poi c’è il tema della paura o delle paure dell’occidente. I numeri dimostrano ampiamente che non ce ne sarebbe bisogno perché l’Europa può fare molto di più di quello che ha fatto. Ma la paura di perdere quanto acquisito impedisce non solo la umana solidarietà, ma anche l’uso del buon senso per trovare soluzioni confacenti.

E in termini politici?

C’è la difficoltà a ripensarsi come area geopolitica universalistica, cioè come un’area che eserciti una responsabilità verso se stessa ed il mondo.

Ma in positivo cosa si può dire?

Che bisogna dare più diffusione e più impulso alle già molte pratiche positive e presenti d’accoglienza ed integrazione dei migranti dando ad esse forma giuridica più compiuta e vincolante per gli Stati Membri (Reti Inclusive, Status giuridico dei mediatori, Standard degli interventi di prima e seconda accoglienza, Status e Competenze dei Tutori MSNA). Di questo si parla poco perché i morti fanno sempre più notizia. Ed infine occorre lavorare sulla struttura sistemica degli interventi ad intra ed extra. E qui torniamo al punto di partenza: è indispensabile e urgente simmetricamente rivedere la governance europea. Siamo tutti consapevoli che ci troviamo di fronte a problemi complessi, ma la pretesa di risolverli in modo semplice o addirittura semplicistico è terribile. Questo è lo scatto che è chiamata a compiere l’Europa. Lo faranno le cancellerie, i politici o c’è spazio anche per una iniziativa degli europei? Questa risposta è ormai ineludibile, anche perché nel frattempo, come ho detto prima, la mattanza continua.

 

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