Essere sacerdote in Benin. Ne parliamo con don Pancrazio William Megnikpa

 

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Pancrazio William Megnikpa è un sacerdote del Benini, piccolo Stato dell’Africa occidentale, incastonato tra la Nigeria a est e il Togo ad ovest. Un evento che ha segnato fortemente il passato del Benin è stata la schiavitù, il cui fenomeno oggi è raffigurato simbolicamente in un monumento, la “Porta del Non Ritorno”, che si trova nella città storica di Ouidah. Ouidah (la capitale vudù del Benin) è la città da cui partivano gli schiavi venduti dai loro conterranei che venivano poi acquistati dai bianchi. “La porta del non ritorno” segnava inesorabilmente il passaggio fuori dalla terra natia. Gli uomini che morivano prima di avere oltrepassato la porta e quindi erano ancora iniziati venivano sepolti nella terra, ma dopo averla passata non erano più considerati uomini e venivano gettati nell'oceano.

Pancras ha vissuto per quasi 4 anni a Palermo esercitando il suo ministero sacerdotale nella parrocchia di Sant’Ernesto e studiando alla Facoltà Teologica di Sicilia. È poi tornato nella sua terra per proseguire la sua missione. Trovandosi per alcune settimane a Palermo gli abbiamo chiesto di mettere in rapporto l’esperienza pastorale fatta in Sicilia con quella che sta facendo in Africa.

Pancras è nato il 17 ottobre del 1980 nel sud del Benin. Suo padre lavora nel Corpo Forestale e sua madre gestisce un piccolo negozio. È il terzo di cinque fratelli. Il primo insegna, il secondo è operaio; gli altri due più piccoli studiano economia. Poiché in Benin è praticata la poligamia, ha altri fratelli frutto di altri due matrimoni del padre. In totale suo padre ha messo al mondo 18 figli da tre mogli.

Come si è manifestata la tua vocazione al sacerdozio?

La vocazione si è manifestata già in età giovanile, avevo circa 13 anni. Un sacerdote amico della mia famiglia mi ha aiutato e guidato all’inizio inviandomi già allora al Seminario Minore. Ho proseguito gli studi nel Seminario del Senegal, ove ho studiato filosofia. Sono poi tornato a casa a Cotonou, che è la mia città ed anche la capitale del Benin. Finiti questi studi il Vescovo mi ha inviato per un anno in una parrocchia della città, san Carlos Luanga. Dopo di che ho chiesto di andare in missione, sempre nel Benin, ma in una parrocchia del nord, che è a maggioranza musulmana e soffre della mancanza di sacerdoti locali. Dopo un anno di esperienza pastorale in quella diocesi il Vescovo mi ha inviato in Nigeria per completare gli studi di teologia ed imparare bene l’inglese, perché la parrocchia in cui ero confinava con la Nigeria. E per questo motivo molti degli abitanti sono nigeriani.

Quanti anni avevi?

A quell’epoca avevo 19 anni e sono rimasto in Nigeria per 4 anni. Sono stato ordinato sacerdote il 5 novembre del 2001 a Kandy per le mani del Cardinale di Abuja, Jon Onayeikon, venuto apposta nella mia diocesi. Nell’occasione sono venuti dal sud i miei genitori che non conoscevano il luogo ove abitavo e lavoravo. Poi sono stato per due anni in un’altra parrocchia del nord del mio Paese come vice parroco. Quindi sono stato nominato parroco in un’altra parrocchia.

E come sei giunto a Palermo?

A quel punto il Vescovo della mia Diocesi mi ha chiesto di andare a Palermo per completare la mia formazione. Qui ho studiato per quasi 4 anni teologia dogmatica, con opzione in ecclesiologia. Quando sono giunto qui non conoscevo assolutamente l’italiano né ero mai stato in Italia; solo per alcuni brevi periodi ero stato in Francia.

Parliamo allora della tua esperienza palermitana. Come è stata, col senno di poi?

Devo ringraziare il parroco e i parrocchiani di Sant’Ernesto per l’accoglienza che mi hanno riservato, che mi ha consentito di imparare velocemente l’italiano e di inserirmi nella vita della parrocchia.

Ma non è stato faticoso inserirsi in un contesto così diverso?

Non ho fatto molta fatica, anzi sono stato contento di conoscere una nuova cultura e un altro modo di vivere la vita. Quello che più mi ha colpito negli anni palermitani è stato la concretezza con cui vivere la mia vocazione e il servizio da rendere ai fratelli. Si potrebbe dire che ho imparato come si può fare per salvare l’uomo.

Che significa?

Che nella esperienza della Chiesa contano certamente le regole e le leggi. Ma ciò che conta veramente è l’esperienza pastorale attraverso cui si può salvare l’uomo. “La gloria di Dio è l’uomo vivente”, vuol dire che la salvezza non risiede nelle formule e i dettati della pastorale. Per cambiare l’uomo e fargli incontrare Dio, si può anche cambiare la pastorale.

Che cosa ti ha colpito di più nei rapporti umani?

Da noi l’amicizia è molto diversa. Per esempio si può andare a casa di chiunque anche senza essere invitati. Qui no. Però quando qui si fa amicizia con qualcuno la persona si affida totalmente. Mentre da noi non ci si fida mai fino in fondo. Certo non è così sempre e con tutti, ma certamente in parrocchia questo è accaduto.

Hai trovato forme di ostilità o di contrarietà alla tua persona?

Se mi chiedi notizie sul razzismo, devo dire con amarezza che il razzismo esiste ancora anche a Palermo. Proprio qualche giorno fa ho preso un autobus e avendo trovato un posto libero ho chiesto se potevo sedermi. Il signore accanto mi ha risposto di no. Era la prima volta che mi accadeva. Poi mi sono accorto che non avevo il colletto da prete e quindi questo non ha disposto bene in mio favore.

E rispetto a quando sei arrivato 4 anni fa?

La situazione rispetto a prima non è peggiorata. Però ho trovato più paura. E molto dipende dal fatto che i palermitani non conoscono l’Africa e i giudizi se li formano dalla televisione. Tutto ciò non si verifica quando si accorgono che sono un prete. Per esempio in facoltà Teologica questa diversità diventa un arricchimento per tutti. I docenti e parte degli studenti conoscono l’Africa e la sua cultura e l’apprezzano.

Torniamo alla tua presenza a Sant’Ernesto.

Devo ringraziare molto il parroco e i parrocchiani di sant’Ernesto perché ho imparato tante cose da loro che ho messo a frutto al mio ritorno in Benin. Fare il parroco in Benin significa concentrare su di sé tutti gli impegni e le responsabilità. Tutti dipendono da te. A Palermo ho imparato a condividere impegni e responsabilità con tutti i parrocchiani. Questo non è solo un modo migliore per lavorare, ma è lo spirito della Chiesa, quella che si chiama comunione ecclesiale. In questo modo tutti condividono una comune responsabilità e il parroco può dedicarsi di più e meglio ad alcune sue prerogative esclusive.

Parla della tua parrocchia in Benin.

La mia parrocchia si chiama San Carlos Luanga di Segbana; ha una chiesa principale e altre piccole chiese per un totale di 13. La più vicina è a 20 km la più lontana ad 80 km. Quindi durante il mese devo girare per incontrare i parrocchiani in queste località così distanti. Mi collaborano un vice parroco e un sacerdote anziano che assicura la celebrazione di alcune Messe. Andiamo in giro con una vecchia motocicletta, sia perché le strade non sono asfaltate sia perché non abbiamo una macchina adatta a quel tipo di strade.

Che tipo di Chiesa è?

Assomiglia molto alla Chiesa dei primi secoli. Bisogna innanzitutto annunciare il Vangelo e condividere la esperienza quotidiana del vivere.. Spesso questo annuncio avviene sotto un albero o comunque all’aperto perché non ci sono locali adatti, a cominciare dalle case.

E i parrocchiani come sono?

I nostri parrocchiani sono molto poveri e in maggioranza sono di religione musulmana. Quindi la carità è un impegno prioritario per me. Ed è questo quello che colpisce di più gli islamici. La loro religione non prevede l’aiuto al prossimo e quello che facciamo noi li interroga molto. Qualcuno è arrivato a confidarsi che sarebbe pure disposto a diventare cristiano, ma teme per la propria incolumità.

Come si fa la catechesi in Benin?

Questo modo di condividere le responsabilità acquisito a sant’Ernesto l’ho applicato anche alla catechesi, che ho affidato ad una suora. Lei è la responsabile ed io l’accompagno nel percorso fino alla fine. Questo l’ho imparato a sant’Ernesto, in cui il parroco affida responsabilità pastorali ai laici. Noi cerchiamo soprattutto di coinvolgere i genitori nella preparazione dei bambini alla Prima comunione.

E con il matrimonio e la poligamia come la mettiamo?

Io seguo personalmente la pastorale dei fidanzati. Rispetto alla poligamia cerchiamo di educare i giovani prima del matrimonio, durante il fidanzamento. Se però hanno due mogli facciamo capire che devono cambiare perché Gesù Cristo ha abolito la poligamia. Chiediamo ai giovani un cammino di un anno, prima di giungere al matrimonio purché abbiamo finito il catechismo di Prima comunione e Cresima. E poi il percorso continua negli incontri che facciamo con le altre famiglie.

Come è cambiato il matrimonio in Benin?

Prima ci si sposava in età adulta. Oggi ci si sposa da giovani. Noi cerchiamo di favorire in tutti i modi il rapporto tra le famiglie. Durante il mese di maggio ci rechiamo ogni mercoledì in alcune famiglie a turno per la recita del rosario e la celebrazione della Messa. A questo momento si aggiungono altre famiglie ed è una occasione per parlare dei problemi che vivono consumando insieme la cena.

Quale è la situazione in Benin dal punto di vista delle religioni?

Secondo i dati ufficiali il 43 % della popolazione è di religione cristiana. Gli islamici sono il 25 %. Vi è poi ancora una fetta di popolazione animista, circa il 17% ed il resto professa altre religioni.

E i cristiani?

Il numero dei cristiani aumenta in genere nel Benin. Li convince la nostra testimonianza di vita personale e la vita della comunità cristiana. Sono convinti sia dal fatto che qualcuno li aiuta a risolvere i problemi della loro vita che dalla vita che vedono nei cristiani che incontrano.

Ma tu operi in un contesto a forte presenza islamica?

Attorno alla mia parrocchia ci sono 5 moschee. Io ho ottimi rapporti con tutti gli islamici e soprattutto con gli Imam. Vengono spesso a trovarci quando ci sono delle ricorrenze ed io ricambio anche le loro visite, per esempio per il Ramadan. Non parliamo mai di religione o di teologia, ma di cose molto concrete, come la vita che fanno i fedeli e le difficoltà che devono affrontare. Parliamo molto anche dei problemi del quartiere: l’evasione scolastica dei bambini, la insufficienza di acqua, le strade dissestate, ecc.

E come vi confrontate sul tema della fede?

Loro non hanno il problema come noi di trasmettere la fede. Loro nascono musulmani in famiglia e così vanno avanti. Loro sono musulmani da sempre. Noi cristiani siamo arrivati dopo in quelle zone. In passato prima di me la parrocchia è stata chiusa perché il parroco non ha saputo vivere e convivere on loro.

E con i giovani come vi rapportare?

Spesso i più giovani vengono da noi nelle giornate di festa, di nascosto dai loro genitori. Sono colpiti dalla nostra vita, dal nostro modo di stare insieme e di divertirci. Ma non possono diventare cristiani, altrimenti rischiano la vita. Forse potranno farlo quando moriranno i loro genitori. Partecipano ai giochi e alla consumazione dei cibi. Quando posso aiuto quelli che hanno difficoltà economiche per esempio nell’acquisto di libri, quaderni ecc. La loro attività prevalente è il lavoro nei campi e lì passano gran tempo della giornata e della vita.

Come si può sintetizzare e giudicare l’esperienza ecclesiale e sociale fatta a Sant’Ernesto e a Palermo?

A Palermo e in parrocchia ho imparato a non ritenermi l’unico responsabile della vita della parrocchia, ma a coinvolgere in tutto i fedeli. L’ho prima spiegato e poi ho iniziato a farlo. All’inizio ritenevano che fosse sbagliato perché spettava a me la responsabilità di tutto. Adesso hanno imparato e apprezzano il modo di lavorare insieme. Questa è in estrema sintesi l’esperienza che ho imparato a Sant’Ernesto e che mi sono portato e di cui sono grato al Signore.

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