Nino De Vita. La parola e la memoria

 

 

devita box2(23 ottobre 2012) – Per raggiungere la Contrada Cutusìo bisogna prendere l’autostrada in direzione Birgi, varcare il limite delle insegne verdi e continuare su una statale a pochi chilometri dal mare. Davanti una chiesetta della frazione di San Leonardo mi attendevano il poeta Nino De Vita e i luoghi che hanno segnato maggiormente la sua esistenza. Infatti ci spostiamo subito in direzione di casa sua: la casa dove è nato, dove ha vissuto l’intera sua infanzia e dove è tornato a vivere da adulto. Nino De Vita è uno dei più autorevoli poeti siciliani viventi, la sua è stata una vita divisa tra i banchi di scuola e la scrivania. Pubblica versi in siciliano già da una ventina d’anni, ha ottenuto riconoscimenti del calibro dei premi “Moravia”, “Mondello”, “Cattafi”. Gli verrà conferito inoltre il premio “Buttitta” 2012. La prima domanda che gli rivolgo riguarda la sua ultima raccolta, Ómini, opera finalista del premio “Viareggio-Rèpaci” 2012 per la sezione poesia.

 

Il suo è un libro pubblicato nel novembre 2011, ma vengono chiamati in causa episodi risalenti a una decina d’anni addietro e non solo, quanto dura la gestazione d’una sua opera? 

I tempi per ogni libro sono dai 10 ai 15 anni, sebbene io a volte lavori a due libri contemporaneamente. Anche per Ómini son partito 15 anni prima della pubblicazione e mi sono ritrovato a scrivere di personaggi che non c’erano più, come Sciascia, Buttitta o Bufalino, e di personaggi ancora viventi, come Consolo o Enzo Sellerio.

 

Le vorrei chiedere della modalità con la quale lei pubblica i suoi libri: escono inizialmente in una prima edizione, quali plaquettes con una tiratura limitata, e in un secondo momento offerti al pubblico più ampio…

La cosa è nata così: nel 1991 è nato mio figlio Alessandro, lavoravo allora a Cutusìu già da circa 10 anni. Mi chiedevo come festeggiare la nascita di mio figlio ed ho pensato di pubblicare in una tiratura di 80/100 copie un brano di Cutusìu, si chiamava Bbinirittèddra. Tra gli altri lo inviai anche a Franco Loi: pur essendo un’edizione privata Loi ne scrisse sul «Sole 24 ore»; seguì dopo qualche giorno anche una recensione sull’«Osservatore Romano». Da lì iniziò questa consuetudine: in occasione del Natale, o del compleanno di mio padre, o dei miei figli, o dei miei 50 anni vado in tipografia e faccio uscire questi libretti. Per un periodo li accompagnavo con un’incisione: ce n’è una ad opera di Guccione, di Modica, di Piazza e di altri amici. Adesso sto facendo un’edizione privata che uscirà a Natale. Continuo ancora, anche se ho un editore che pubblica i miei versi. Mi piace fare queste edizioni private, fuori commercio. Succede così: mentre io lavoro al libro, comincio a pubblicarne brani su riviste, antologie, edizioni private, edizioni d’arte… Fino al momento in cui esce il libro, che contiene tutti questi brani sparpagliati ed altri ancora inediti.

 

Diceva che lavora spesso a due libri contemporaneamente, può spiegarci meglio?

In questo momento sto lavorando al quinto libro, ma continuo a lavorare anche agli altri quattro già pubblicati. Vado anche ripubblicando, perché se c’è un ricordo che affiora, che è bello, io devo inserirlo nel precedente. Oppure mi accorgo di qualche difetto, di qualcosa che non sono riuscito a definire, di cui non sono contento, allora ci ritorno. Si può dire che io lavoro a tutti i libri: ai due che devo ancora finire, ma anche ai quattro che ho già pubblicato. E così se si andasse a vedere la storia di un testo tra le varie edizioni si noterebbero un’infinità di varianti. E’ un lavoro di assestamento continuo.

 

Ha parlato di un totale di sei libri, quindi ha un progetto ben chiaro al quale sta lavorando…

Sì, l’ho strutturato in sei libri: ne ho pubblicati quattro, ne rimangono due. In questi sei libri dovrebbero entrare tutte le parole del dialetto marsalese; e quindi anche le parole che riguardano la flora, la fauna, i soprannomi: tutto! Quindi se uno cerca una parola marsalese, in questi miei sei libri ci sarà! Di qualsiasi parola si tratti. È un lavoro lungo, mi sono appuntato tutte le parole che ci sono dentro e quelle che sono ancora fuori, che non sono molte. In questo mio lavoro, che non so quando finirò, se lo finirò, ci saranno tutte le parole della lingua che io ho parlato da bambino. È un lavoro enciclopedico! Lo porto avanti dal 1980, sono ormai 32 anni: ho messo da parte le altre cose, mi sono concentrato su questo; non so se riuscirò a finire, perché c’è ancora tanto lavoro.

 

Qual è la scansione di questi sei libri?

I miei primi tre libri abbracciano, come tempo, dalla mia nascita ai miei diciotto anni. Quindi sono tre libri chiusi in questi luoghi, a Cutusìo. Finisce il terzo, Nnòmura, quando io prendo l’aereo per andare a Palermo. A questo punto ho fatto un libro (Ómini ndr)  che non è più su Cutusìo – anche se io ho lasciato alcune cose che richiamano questa contrada – il libro per il 90% si espande per i luoghi e personaggi della Sicilia.

 

I libri di questo progetto sono tutti scritti in dialetto, di che lingua si tratta?

È una lingua ottocentesca la mia, perché io sono nato proprio in questa casa nell’8 giugno 1950. Il perimetro della casa è rimasto uguale a quando sono nato. Nel ’50  questa contrada non aveva la luce, quindi non c’era la televisione, non arrivavano i giornali. Mio papà era un contadino. A casa mia non c’era un libro, solo un piccolo Vangelo che mia madre teneva sul comodino ed ogni tanto leggeva. A casa con noi vivevano i nonni, nati nell’Ottocento: parlavano un dialetto ottocentesco. Tutti qui a casa parlavamo in dialetto. La giacca era chiamata bunaca¸ la cravatta scolla, le calze pirunetta. Io ho appreso come lingua madre proprio il dialetto.

 

Perchè ha iniziato a scrivere in dialetto? 

Ho iniziato a scrivere in dialetto quando avevo 30 anni, prima scrivevo poesie in italiano. Tutto è avvenuto in una mattina: insegnavo Scienze chimiche al liceo scientifico di Trapani, un ragazzo mi ha chiesto di uscire e lasciò la porta socchiusa. Così mi venne da rivolgermi allo studente in dialetto, gli ingiunsi: “’un lassari à porta à ciaccazzeddra”, che significa “non lasciare la porta socchiusa”. Ciaccazzeddra che poi deriva da ciaccazza, fessura. Allora un ragazzo dal banco si rivolse a me dicendomi: “Professore, ma che parla arabo stamattina?”. Alcuni dei miei alunni sapevano cosa significasse quel termine ma una buona metà della classe no. Allora mi sono fermato per un po’ e ho cominciato a tirare fuori parole in siciliano, constatando come questa mia lingua stesse scomparendo quasi del tutto. A un certo punto ricordo di aver detto minzuddre (che sono i gemelli, due mezzi…), questa parola era ignota a tutta la classe. Eppure erano parole della mia fanciullezza. Al ché mi sono detto: “questi non mi capiscono più, quindi il siciliano è finito”. Da questo senso di rabbia che mi è venuto allora, tornando a casa ho cominciato a pensare cosa potessi fare per salvare queste parole. Certo, c’erano vocabolari che le contenevano, ma sono messe lì in maniera fredda: bunaca uguale giacca; scolla uguale cravatta. Se io creassi dei racconti in cui parlo dei personaggi, di flora, di fauna cominciandoli a nominare io farei rivivere le parole. Se io trovassi in un vocabolario il termine “sciabbacaddrazzo” ed il suo significato di persona stupida, sarebbe una parola fredda. Ma se io creassi un personaggio stupido e poi lo designassi con il termine “sciabbaccaddrazzo” farei rivivere la parola!

 

Quanto è importante l’esecuzione della parola?

Noi siciliani con una sola parola riusciamo a dare tante interpretazioni. Di ogni parola ricordo anche come è stata detta. Magari da un racconto di un vecchio traggo una parola soltanto e la adopero in un mio racconto che non era il suo; lui stava dicendo altre cose. La memoria è un meccanismo strano: mentre scrivo, viene fuori questa parola, che qualche secondo prima non pensavo di scrivere. Però ripensandoci c’era bisogno proprio di questa parola e la memoria l’ha tirata ed andava proprio messa lì, in quella storia che stavo scrivendo, che era tutt’altro dalle storie che aveva raccontato quel vecchietto. La memoria che riprende tutto questo… Questo ha a che fare con il piacere, con il mio essere contento, con la poesia…

 

 

 

devita box2(23 ottobre 2012) – Per raggiungere la Contrada Cutusìo bisogna prendere l’autostrada in direzione Birgi, varcare il limite delle insegne verdi e continuare su una statale a pochi chilometri dal mare. Davanti una chiesetta della frazione di San Leonardo mi attendevano il poeta Nino De Vita e i luoghi che hanno segnato maggiormente la sua esistenza. Infatti ci spostiamo subito in direzione di casa sua: la casa dove è nato, dove ha vissuto l’intera sua infanzia e dove è tornato a vivere da adulto. Nino De Vita è uno dei più autorevoli poeti siciliani viventi, la sua è stata una vita divisa tra i banchi di scuola e la scrivania. Pubblica versi in siciliano già da una ventina d’anni, ha ottenuto riconoscimenti del calibro dei premi “Moravia”, “Mondello”, “Cattafi”. Gli verrà conferito inoltre il premio “Buttitta” 2012. La prima domanda che gli rivolgo riguarda la sua ultima raccolta, Ómini, opera finalista del premio “Viareggio-Rèpaci” 2012 per la sezione poesia.

 

Il suo è un libro pubblicato nel novembre 2011, ma vengono chiamati in causa episodi risalenti a una decina d’anni addietro e non solo, quanto dura la gestazione d’una sua opera? 

I tempi per ogni libro sono dai 10 ai 15 anni, sebbene io a volte lavori a due libri contemporaneamente. Anche per Ómini son partito 15 anni prima della pubblicazione e mi sono ritrovato a scrivere di personaggi che non c’erano più, come Sciascia, Buttitta o Bufalino, e di personaggi ancora viventi, come Consolo o Enzo Sellerio.

 

Le vorrei chiedere della modalità con la quale lei pubblica i suoi libri: escono inizialmente in una prima edizione, quali plaquettes con una tiratura limitata, e in un secondo momento offerti al pubblico più ampio…

La cosa è nata così: nel 1991 è nato mio figlio Alessandro, lavoravo allora a Cutusìu già da circa 10 anni. Mi chiedevo come festeggiare la nascita di mio figlio ed ho pensato di pubblicare in una tiratura di 80/100 copie un brano di Cutusìu, si chiamava Bbinirittèddra. Tra gli altri lo inviai anche a Franco Loi: pur essendo un’edizione privata Loi ne scrisse sul «Sole 24 ore»; seguì dopo qualche giorno anche una recensione sull’«Osservatore Romano». Da lì iniziò questa consuetudine: in occasione del Natale, o del compleanno di mio padre, o dei miei figli, o dei miei 50 anni vado in tipografia e faccio uscire questi libretti. Per un periodo li accompagnavo con un’incisione: ce n’è una ad opera di Guccione, di Modica, di Piazza e di altri amici. Adesso sto facendo un’edizione privata che uscirà a Natale. Continuo ancora, anche se ho un editore che pubblica i miei versi. Mi piace fare queste edizioni private, fuori commercio. Succede così: mentre io lavoro al libro, comincio a pubblicarne brani su riviste, antologie, edizioni private, edizioni d’arte… Fino al momento in cui esce il libro, che contiene tutti questi brani sparpagliati ed altri ancora inediti.

 

Diceva che lavora spesso a due libri contemporaneamente, può spiegarci meglio?

In questo momento sto lavorando al quinto libro, ma continuo a lavorare anche agli altri quattro già pubblicati. Vado anche ripubblicando, perché se c’è un ricordo che affiora, che è bello, io devo inserirlo nel precedente. Oppure mi accorgo di qualche difetto, di qualcosa che non sono riuscito a definire, di cui non sono contento, allora ci ritorno. Si può dire che io lavoro a tutti i libri: ai due che devo ancora finire, ma anche ai quattro che ho già pubblicato. E così se si andasse a vedere la storia di un testo tra le varie edizioni si noterebbero un’infinità di varianti. E’ un lavoro di assestamento continuo.

 

Ha parlato di un totale di sei libri, quindi ha un progetto ben chiaro al quale sta lavorando…

Sì, l’ho strutturato in sei libri: ne ho pubblicati quattro, ne rimangono due. In questi sei libri dovrebbero entrare tutte le parole del dialetto marsalese; e quindi anche le parole che riguardano la flora, la fauna, i soprannomi: tutto! Quindi se uno cerca una parola marsalese, in questi miei sei libri ci sarà! Di qualsiasi parola si tratti. È un lavoro lungo, mi sono appuntato tutte le parole che ci sono dentro e quelle che sono ancora fuori, che non sono molte. In questo mio lavoro, che non so quando finirò, se lo finirò, ci saranno tutte le parole della lingua che io ho parlato da bambino. È un lavoro enciclopedico! Lo porto avanti dal 1980, sono ormai 32 anni: ho messo da parte le altre cose, mi sono concentrato su questo; non so se riuscirò a finire, perché c’è ancora tanto lavoro.

 

Qual è la scansione di questi sei libri?

I miei primi tre libri abbracciano, come tempo, dalla mia nascita ai miei diciotto anni. Quindi sono tre libri chiusi in questi luoghi, a Cutusìo. Finisce il terzo, Nnòmura, quando io prendo l’aereo per andare a Palermo. A questo punto ho fatto un libro (Ómini ndr)  che non è più su Cutusìo – anche se io ho lasciato alcune cose che richiamano questa contrada – il libro per il 90% si espande per i luoghi e personaggi della Sicilia.

 

I libri di questo progetto sono tutti scritti in dialetto, di che lingua si tratta?

È una lingua ottocentesca la mia, perché io sono nato proprio in questa casa nell’8 giugno 1950. Il perimetro della casa è rimasto uguale a quando sono nato. Nel ’50  questa contrada non aveva la luce, quindi non c’era la televisione, non arrivavano i giornali. Mio papà era un contadino. A casa mia non c’era un libro, solo un piccolo Vangelo che mia madre teneva sul comodino ed ogni tanto leggeva. A casa con noi vivevano i nonni, nati nell’Ottocento: parlavano un dialetto ottocentesco. Tutti qui a casa parlavamo in dialetto. La giacca era chiamata bunaca¸ la cravatta scolla, le calze pirunetta. Io ho appreso come lingua madre proprio il dialetto.

 

Perchè ha iniziato a scrivere in dialetto? 

Ho iniziato a scrivere in dialetto quando avevo 30 anni, prima scrivevo poesie in italiano. Tutto è avvenuto in una mattina: insegnavo Scienze chimiche al liceo scientifico di Trapani, un ragazzo mi ha chiesto di uscire e lasciò la porta socchiusa. Così mi venne da rivolgermi allo studente in dialetto, gli ingiunsi: “’un lassari à porta à ciaccazzeddra”, che significa “non lasciare la porta socchiusa”. Ciaccazzeddra che poi deriva da ciaccazza, fessura. Allora un ragazzo dal banco si rivolse a me dicendomi: “Professore, ma che parla arabo stamattina?”. Alcuni dei miei alunni sapevano cosa significasse quel termine ma una buona metà della classe no. Allora mi sono fermato per un po’ e ho cominciato a tirare fuori parole in siciliano, constatando come questa mia lingua stesse scomparendo quasi del tutto. A un certo punto ricordo di aver detto minzuddre (che sono i gemelli, due mezzi…), questa parola era ignota a tutta la classe. Eppure erano parole della mia fanciullezza. Al ché mi sono detto: “questi non mi capiscono più, quindi il siciliano è finito”. Da questo senso di rabbia che mi è venuto allora, tornando a casa ho cominciato a pensare cosa potessi fare per salvare queste parole. Certo, c’erano vocabolari che le contenevano, ma sono messe lì in maniera fredda: bunaca uguale giacca; scolla uguale cravatta. Se io creassi dei racconti in cui parlo dei personaggi, di flora, di fauna cominciandoli a nominare io farei rivivere le parole. Se io trovassi in un vocabolario il termine “sciabbacaddrazzo” ed il suo significato di persona stupida, sarebbe una parola fredda. Ma se io creassi un personaggio stupido e poi lo designassi con il termine “sciabbaccaddrazzo” farei rivivere la parola!

 

Quanto è importante l’esecuzione della parola?

Noi siciliani con una sola parola riusciamo a dare tante interpretazioni. Di ogni parola ricordo anche come è stata detta. Magari da un racconto di un vecchio traggo una parola soltanto e la adopero in un mio racconto che non era il suo; lui stava dicendo altre cose. La memoria è un meccanismo strano: mentre scrivo, viene fuori questa parola, che qualche secondo prima non pensavo di scrivere. Però ripensandoci c’era bisogno proprio di questa parola e la memoria l’ha tirata ed andava proprio messa lì, in quella storia che stavo scrivendo, che era tutt’altro dalle storie che aveva raccontato quel vecchietto. La memoria che riprende tutto questo… Questo ha a che fare con il piacere, con il mio essere contento, con la poesia…

 

Pagina 2

 

Le vorrei chiedere di una parola che ho trovato in Ómini: sulità.  Cos’è per lei la “sulità”/solitudine?

Sulità ha a che fare con i nostri luoghi, con la mia casa: prima questa era una casa abbastanza isolata, quasi abbandonata nel mezzo di una campagna. Ricordo di sera che, figlio unico, stavo da solo a casa al buio e quella era la sulità. L’ho vissuta questa solitudine: un’edizione privata che ho pubblicato ha per titolo proprio questa parola. Nel caso della poesia citata (“Si fussi surdu annunca” di Ómini, la stessa che il poeta recita nel video ndr ) la sulità/solitudine è anche del baglio, degli oggetti, delle case, quindi non solo degli uomini. Erano luoghi in cui negli anni ’50 c’era questa “sulità”. Ci cercavamo noi ragazzi per giocare, ma quando faceva sera ognuno tornava a casa. E quindi dalle cinque di pomeriggio di inverno iniziava questa sulità... In seguito invece è stata una cosa ricercata, lo potrebbe essere anche tutt’ora: la cerco questa solitudine, perché ci sto bene. Adesso questo termine lo ricerco per potere lavorare, per stare in sulità..

 

In un’altra poesia di Ómini un barbiere la invita a sedersi e le dice: “S’assittassi e tagghiamu/ sti mìcciuli, amunì,/ chi cci cuntu ‘a passata”. Si sieda, ché le racconto la storia: chi inizia a leggere i suoi libri, rimane come in attesa delle sue storie… Quanto ha inciso su di lei l’oralità?

La mia non è una poesia lirica, è una poesia che ha a che fare con il racconto, col raccontare, col cùntu. Non a caso il mio secondo libro si chiama Cùntura. Io da ragazzino andavo in un circolo dove, soprattutto d’inverno, alle cinque, alle sei di pomeriggio tutti i vecchi della zona si riunivano e cominciavano a raccontare storie e fatti. Per me era veramente una cosa stupenda, io stavo lì ad ascoltare le parole, guardare il gesticolare di questi uomini… E molti racconti mi sono rimasti in mente.

Tra l’altro quando mi venne conferito per Cutusìu il premio “Moravia”, io chiesi il motivo per cui veniva conferito un premio di narrativa alla mia raccolta in versi ed Enzo Siciliano lapidariamente mi rispose: “il suo è un libro di narrativa”. E in effetti con me c’è sempre questo sfumare tra la narrativa e la poesia. È un raccontare in versi.

 

Parlando di Ómini diventa impossibile non chiederle della presenza di Sciascia, Bufalino o Buttitta. Ma prima mi permetta una domanda: tra di voi parlavate in siciliano?

Sì, ogni tanto si parlava in dialetto. Certamente con Ignazio Buttitta il dialetto predominava, ma anche con Sciascia venivano fuori delle parole in dialetto, meno con Bufalino. Ero io che spingevo maggiormente per fare entrare nei nostri dialoghi il dialetto.

 

La domanda nasce dal fatto che da questo libro emerge una familiarità tra voi..

Sì è vero, c’era una grande familiarità. Guardate (si gira, indica una foto appesa al muro ndr), quello è Leonardo! Ho incontrato Sciascia nell’autunno del ’69 a Palermo, io avevo 19 anni. Si tratta di un’amicizia che è durata fino all’89, vent’anni. All’inizio era un’amicizia che aveva a che fare più con la letteratura che con altro. Ma poi pian piano è diventata una familiarità. Ecco Sciascia con mia figlia (girandosi di nuovo verso le foto ndr).

 

Come vi siete conosciuti con Sciascia?

Io ero andato a vedere una mostra di fotografia e lì ho incontrato Enzo Sellerio. Ci siamo messi a parlare e, vedendomi interessato alla letteratura e alla fotografia, mi chiese di andarlo a trovare in via Siracusa 50, annunciandomi il suo progetto di creare una nuova casa editrice. Si stava lavorando al primo libro “Sellerio”, lo ricordo ancora: “I veleni di Palermo” di Rosario La Duca. Ma io non sapevo che Sciascia lavorasse lì. E così io sono andato in via Siracusa, ho suonato, mi ha aperto la porta Enzo Sellerio, mi ha fatto entrare. Quando sono entrato ho visto che c’era questo signore con la sigaretta così (De Vita imita Sciascia portandosi una mano sul volto come in atto di sostenere il viso e trattenere la sigaretta, si consiglia di guardare il video, ndr). E Sellerio subito dopo mi disse “venga che le presento Leonardo Sciascia”. Io ero un ragazzino, avevo 19 anni. Lui era di poche parole e rimase di poche parole tutta la sera. A un certo punto mi chiese cosa facessi, di dove fossi e poi mi pregò di dargli un passaggio per tornare l’indomani da Sellerio. Lui abitava in via Scaduto, dalle parti di Villa Sperlinga a Palermo. Io mi emozionai un po’ di questo fatto e così accettai. Nacque così quest’amicizia che da allora durò vent’anni, senza mai un’incrinatura. La sera prima che lui morisse, il 22 novembre dell’89, io ero lì nella camera da letto a casa sua. Non mi sembrava che fosse così sfinito, invece la mattina successiva arrivò una telefonata a casa mia, e andai a Palermo. Un paio di mesi prima mi chiamò per dirmi che voleva affidarmi insieme ad altri la “Fondazione Sciascia”. Così ancora oggi mi occupo anche di questo.

 

E con Sciascia chi frequentava?

Leonardo non frequentava molte persone, però c’era un gruppetto: c’era l’avvocato Perna, il giudice Nasca.. Andavamo alla Galleria “La Tavolozza” in via Libertà, della moglie di Bruno Caruso; poi andavamo da Maurilio Catalano, ad “Arte al Borgo”, sempre in una traversa di Via Libertà. Ho incontrato così anche Bufalino, anche perché nell’81 Sellerio ha pubblicato “Diceria dell’untore”. Ricordo tutti quei giorni della scoperta di Bufalino. Mi vedevo tutti i giorni con Leonardo. Qualche volta andavamo a Pioppo a prendere la carne. E da Palermo per Pioppo impiegavamo un’ora e mezza, soprattutto se c’era traffico, per cui questo tempo lo trascorrevamo parlando insieme.

 

E invece Buttitta?

Buttitta era esplosivo. Quando mi sono laureato nel ’74 e volevo tornare a Palermo, non avevo più una casa in affitto; così andavo a dormire a casa di Buttitta, ad Aspra. Lì è nata un’altra amicizia profonda. Lui aveva un villino ad Aspra: sopra c’era un appartamentino, ed io andavo a dormire lì. Mi teneva fino a tardi a parlare, perché era esplosivo, inventava racconti… Quella è stata una gran bella amicizia!

 

L’ultima domanda sul suo modo di scrivere: qual è il rapporto tra la sua poesia e la realtà, tra poesia e vissuto esistenziale?

È tutta presa dal vissuto, anche quando un cùnto può sembrare totalmente un frutto della fantasia, no anche lì dentro ci sono io, ci sono le cose che visto o ascoltato… C’è sempre l’uomo che scrive, inevitabilmente. Ma questo non solo per me: quando Sciascia scriveva qualcosa c’era lui, c’era Racalmuto, c’era la Sicilia.. Guttuso diceva addirittura “anche se dipingo una mela, lì c’è la Sicilia”. Del resto io adoperando il dialetto.. C’è il ricordo di quando è stata pronunciata quella parola che io utilizzo: mi ricordo le volte che è stata pronunciata, quando un vecchietto l’ha buttata lì ed io l’ho raccolta. Poi nel momento in cui scrivo affiora alla memoria quella parola – perché io questo dialetto ce l’ho tutto dentro di me – la scrivo e la vivo particolarmente perché l’avevo ascoltata e ho il ricordo di quando l’ho ascoltata per la prima volta.

 

 


 

Guarda il video dell'intervista.

 


 

 

 

 

 

Questo sito utilizza cookie, anche di terze parti, per offrire servizi in linea con le tue preferenze. Se non accetti le funzionalità del sito risulteranno limitate. Se vuoi saperne di più sui cookie leggi la nostra Cookie Policy.