Tradizione e contemporaneità del 2 novembre

 

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(3 novembre 2014) – Il giorno dei morti sono stato anch’io al cimitero. Prima di recarmi sulla tomba dei miei cari sono passato accanto a quella dei concittadini illustri, quelli che hanno onorato e reso famosa la nostra terra. Mi sono sorpreso in un pensiero alquanto strano: ho pensato che se per ipotesi un immane cataclisma distruggesse la nostra società, portando via con sé uomini e cose, ma lasciasse intatti i nostri cimiteri, quale sarebbe l’eredità che saremmo in grado di lasciare a quanti verrebbero dopo? Saremmo in grado di consegnare attraverso il culto dei morti il significato della nostra vita e della nostra civiltà? Certamente no, mi son detto. E poi di rimando: ma perché? Perché non saremmo in grado di essere al pari degli egiziani, degli etruschi e di quanti son venuti dopo di loro? A mio avviso perché la nostra società non ha più a cuore la vita, e la morte non può spiegarsi senza la vita.

Fino a quando la vita era considerata un dono, più o meno spiegabile e accettabile a secondo delle religioni e delle epoche, la morte veniva ammessa e in qualche modo compresa; era comunque un fatto con cui fare i conti. Ma oggi che l’uomo è ad un passo, così almeno crede, di potersi dare la vita da sé stesso; oggi che può incidere significativamente sui processi scientifici che generano la nascita, così da determinarne il come, il quando, il se (ma non il perché); oggi che la nascita di un figlio è un diritto e non una circostanza di cui ringraziare; oggi che la vita può essere manipolata anche prima della nascita; oggi che l’appartenenza al genere può essere scelto e modificato; oggi che per dare la vita si può affittare un utero disponibile e che l’allevamento dei figli non è più legato alla diversità di genere; oggi che abbiamo conquistato tutto ciò, perché celebrare la morte? La morte non è più un evento da accettare che è posto al di fuori dalla nostra portata, delle nostre decisioni. Ed allora bisogna trovarne la causa in qualcuno, magari in un altro uomo (spesso di un medico incompetente o di una disgrazia che poteva essere evitata, magari con maggiori misure di sicurezza); dunque, la morte va allontanata esorcizzandola.

La riprova l’ho avuta guardando i tanti che al cimitero si recavano a compiere lo stesso mio gesto. Persone adulte, se non anziane. Pochissimi giovani, nessun bambino. Oggi i bambini sono tenuti fuori dai funerali, anche quelli dei parenti più stretti, perché “resterebbero traumatizzati”, si dice. E così le nuove generazioni dovrebbero crescere senza fare i conti con il significato della morte. Peccato che essa raggiunge tutti quando e come vuole. Ci si aiuta con figure specialistiche, ad esempio gli psicologi, in grado magari di aiutare a lenire la pena, ma non sempre a spiegarne il senso più profondo.

Peccato che la nostra società, soprattutto quella meridionale, fino solo a pochi anni fa aveva trovato da secoli un giusto rapporto tra vita e morte che proprio nella ricorrenza del 2 novembre e nelle persone dei più piccoli trovava sintesi mirabile con il rito dei doni. Secondo un gioco delle parti, da tutti accettato e condiviso, i piccoli facevano finta di credere che i doni venivano portati nella notte dai morti ed i grandi il giorno dopo li accompagnavano al cimitero per ringraziare i parenti benefattori. Un gioco delle parti molto educativo, distrutto il quale sono i bimbi a “pretendere” quale giocattolo attendere e i grandi a subire impunemente la privazione di scegliere secondo il loro criterio il dono da fare. Grazie alla crisi questa tradizione sta scomparendo e il rito dei regali dei morti è stato unificato con quello del Natale. Che magra consolazione!

La nostra tradizione letteraria, artistica, culturale ci ha lasciato mirabili esempi su un modo umano di trattare il rapporto con la morte. Tanto lungo quanto inutile oggi ripercorrere quell’elenco, al quale si attribuisce ormai solo un valore artistico.

Ma di uno, almeno, val la pena far memoria, perché fa parte di uno dei libri più letti e amati da noi siciliani: Il Gattopardo. Partiamo prima dalla ben più nota ricostruzione cinematografica: nella scena in cui il Principe di Salina contempla il quadro “La morte del Giusto” di Greuze, emerge l’ironia del giovane Tancredi che esclama: «Zione, corteggi la morte?». Tancredi preconizza di essere un uomo contemporaneo a noi, un uomo del futuro, convinto di poter sconfiggere la morte, magari solo ignorandola. E come non ricordare poi la conclusione del film: don Fabrizio inginocchiato in un vicolo della città che al passaggio del Santo Viatico si esprime con la famosissima invocazione alla stella Venere: «… quando ti deciderai a darmi un appuntamento meno effimero?». E per ultimo il capitolo “La morte del principe” che anche se non trovò spazio nella sceneggiatura di Visconti, rimane una delle pagine più indimenticabili dell’intero testo.

Che dire, dunque, per non passare per sentimentali e retro? Una sola semplice affermazione: non buttiamo via insieme alla comprensibile voglia di essere moderni, quel patrimonio culturale che ci ha consentito tutti, anche quelli che affermano il contrario, di avere una rapporto “umano” col fatto più umano di tutti, quello che non è mai cambiato nella vita degli uomini, fin da quando sono apparsi per la prima volta sulla terra. E per far ciò non aspettiamo il prossimo 2 novembre, perché con la morte si vive e si convive ogni giorno. Tranne che vogliamo anestetizzarci con il rito di Halloween, buono forse a passare una notte in allegria, ma non in grado di farci dimenticare i nostri cari che ci attendono, almeno una volta l’anno al cimitero, e ai quali un giorno ci uniremo.

 

(ph. Roberto Alabiso)

 

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