Palermo. Rapsodia di arte nei secoli (1)


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(12 marzo 2012) - Pubblichiamo il primo di una serie di articoli dedicati a Palermo e pensati per descrivere particolari itinerari della sua storia e della sua cultura. In questo contributo è narrato il patrimonio popolare di fede e memoria che è cresciuto nei secoli intorno alla devozione verso la “Santuzza” e che si ritrova nel corredo delle statue poste nel piano della cattedrale. Per delineare l’identità che Palermo ha raggiunto nel corso dei secoli, il prossimo articolo metterà a tema lo sviluppo urbanistico di questa città attraverso i Mandamenti. Nei successivi inserimenti saranno trattate le conseguenze esercitate sulla città dalle molte cifre artistiche e architettoniche intercorse nel tempo. Gli articoli sono a firma di Rita Martorana Tusa e sono il frutto della sua collaborazione al Centro Culturale “Il Sentiero” di Palermo (www.ilsentieropa.it). Ringraziamo entrambi. Sicily Present


 

 

(1) Memorie dal piano della CattedraleRita Martorana_Tusa 

Quando pensiamo ai Santi patroni di Palermo, oggi ricordiamo immediatamente solo Santa Rosalia, della quale tutti i palermitani conoscono almeno le notizie essenziali. Già più complicato, e per “addetti ai lavori”, è ricordare anche la presenza di quattro Sante – Agata, Ninfa, Cristina, Oliva – che per secoli sono state le protettrici della città, e che solo dopo la peste del 1624 sono state soppiantate dalla “Santuzza”. Sotto la loro protezione sono rimasti i quattro Mandamenti, i quartieri risultanti dal taglio della via Maqueda: Mandamento Palazzo Reale o Albergheria sotto la protezione di Santa Cristina, Mandamento Monte di Pietà o Capo con Santa Ninfa, Mandamento Tribunali o Kalsa protetto da Sant’Agata, Mandamento Castellammare o Loggia con Sant’Oliva. Ma tanti altri santi sono stati venerati nel corso dei secoli dalla Chiesa di Palermo, santi che oggi sono pressoché dimenticati, e insieme a loro gran parte del patrimonio di fede del popolo. Basti solo ricordare che nel secolo XVIII la nostra città contava quindici santi principali e venti santi ordinari. La venerazione dei santi patroni, siano essi della città, di un quartiere, di una corporazione o confraternita, è l’espressione infatti della religiosità più autentica di un popolo, per il quale la santità rappresenta la stoffa della vita cristiana e costituisce il reale compimento dell'umanità di ciascuno.

Ma cosa lega Agata, Ninfa, Cristina e Oliva alla città di Palermo, tanto da esserne diventate le patrone? Quali altri santi sono legati alla Chiesa di Palermo e alla storia della città? Un ideale itinerario di riscoperta dei santi palermitani, delle figure delle Sante patrone di Palermo, ma anche dei santi nati o vissuti o Palermo, e delle tracce devozionali, culturali e artistiche che il loro culto ha lasciato per tornare alle origini della religiosità più autentica della nostra città, per secoli radicata profondamente nella storia e nelle tradizioni, non può non avere come punto di partenza la Cattedrale, da sempre fulcro della vita religiosa della città, e luogo principale della memoria e del culto dei santi patroni.

Il “Piano della Cattedrale” infatti, usato nel corso dei secoli come cimitero, fiera, luogo di feste con apparati spettacolari e tribunale pubblico, mostra sulle recinzione marmorea che lo racchiude le statue di tutti i santi palermitani. Esse sono rivolte verso il Cassaro e danno le spalle alla Cattedrale, quasi poste a vegliare sulla città e a custodire e proteggere i suoi abitanti. La grande spianata antistante il fianco meridionale della chiesa era stata ampliata alla metà del XV secolo, e racchiusa da una balaustrata nel secolo successivo. Alla metà del XVII secolo l’architetto del Senato Gaspare Guercio ne progettò la sistemazione definitiva realizzando la recinzione con le statue delle Sante patrone e di altri Santi particolarmente legati alla storia della città: San Mamiliano, San Sergio, Sant’Agatone, Santa Silvia, e i Santi Eustozio (o Eustorgio), Procolo e Golbodeo. Si tratta di personaggi vissuti nell’età paleocristiana o nell’alto Medioevo, comunque tutti legati alle radici della chiesa palermitana.

Le statue furono realizzate dai maggiori scultori dell’epoca, tra cui ricordiamo Gaspare Guercio che eseguì le statue di Santa Rosalia, Santa Ninfa e Sant’Oliva; Carlo d’Aprile che fu incaricato di eseguire le statue di Sant’Agata, Santa Cristina, Santa Silvia, San Sergio e Sant’Agatone; Giovan Battista Ragusa che realizzò la statua di San Francesco di Paola, e Giovanni Travaglia che scolpì le figure di Sant’Agostino e San Mamiliano. Non manca comunque, in posizione preminente in asse con il portico meridionale, la statua di Santa Rosalia che si erge sulla «macchina marmorea» eretta nel 1745 da Vincenzo Vitagliano al centro del “Piano”.

All’interno della chiesa Cattedrale la memoria dei santi patroni è custodita nella Cappella delle reliquie, che venne allestita dal Cardinale Lualdi nel 1912 con lo scopo appunto di custodire le urne – risalenti al XVI e XVII secolo – dei santi palermitani, e lungo le cui pareti è posta la seguente iscrizione: «Ai fiori della Chiesa Palermitana / né le rose mancano né il gigli; / della loro santità esulta il cielo; / del loro patrocinio la nostra terra si allieta». Le storie della vita e dei miracoli di questi santi sono testimoniate per lo più da antichi martirologi e da racconti popolari, e spesso affondano le loro radici nella leggenda.

Santa Oliva nacque a Palermo nel 448 da una famiglia nobile convertita al cristianesimo, e si narra che fosse una fanciulla di rara bontà e bellezza, la quale fin da bambina aveva fatto voto di verginità consacrandosi a Dio. Quando nel 454 i Vandali conquistarono la Sicilia iniziò un periodo di persecuzioni per i cristiani, ma Oliva non volle rinnegare la sua fede. Per questo venne esiliata a Tunisi dove convertì numerose persone e operò diversi miracoli. Il governatore di Tunisi allora pensò di sbarazzarsi di lei abbandonandola nel deserto affinché venisse divorata dalle belve feroci o morisse di fame. Oliva invece ammansì le belve e in quel deserto visse parecchi anni. Un giorno alcuni cacciatori la scoprirono e cercarono di violentarla, ma furono convertiti anche loro. Il governatore allora la fece ricondurre in città e la sottopose a diversi tormenti ai quali Oliva sopravvisse, fino a quando fu decapitata, il 10 giugno del 463. Secondo la tradizione dopo la morte il suo corpo fu rapito da alcuni cristiani e fu sepolto segretamente a Palermo, in un luogo presso le mura della città che la tradizione ha da sempre identificato con il piano di Sant’Oliva (oggi piazza S. Francesco di Paola). Il suo corpo è custodito secondo la tradizione nella cappella a lei dedicata nella chiesa di San Francesco di Paola, in quello che viene definito «il pozzo di Sant’Oliva» anche se le ossa della santa non sono state mai trovate; quando il corpo sarà trovato, un cataclisma funesterà la Conca d'Oro, ma segnerà anche il principio di un'era di felicità.

Una leggenda simile era diffusa anche a Tunisi, dove esiste ancora una moschea che porta il nome di «Jāmi al-zaytūna», ovvero «Moschea dell'oliva»: questo perché in quel luogo era stata eretta una chiesa, che poi gli arabi convertirono in moschea, lasciandone però il nome tradotto in arabo; si crede che quando verrà rinvenuto il suo corpo l’Islam avrà fine. Il suo culto si diffuse in epoca normanna, mentre le notizie sulla sua vita compaiono in alcuni testi a partire dal XIV e XV secolo; la più antica raffigurazione della santa si trova in una piccola tavoletta del XII secolo conservata al Museo Diocesano di Palermo. I suoi attributi sono il ramoscello d’ulivo che allude al suo nome, e il turbante che ricorda il soggiorno a Tunisi.

Sant’Agata, vissuta nel III secolo, viene venerata come patrona perché ritenuta di origine palermitana, anche se la sua nascita viene contesa tra palermitani e catanesi: la sua casa sarebbe stata nella contrada della Guilla, dove già in epoca normanna esisteva la chiesa dedicata alla santa denominata appunto di Sant'Agata alla Guilla, e nella chiesa di Sant'Agata la Pedata si venera il sasso dove la santa lasciò le impronte dei piedi andando al martirio. Sant'Agata, consacratasi a Dio all'età di 15 anni, doveva avere circa 21 anni all’epoca del suo martirio. La tradizione orale catanese, i documenti agiografici e le raffigurazioni iconografiche che la raffigurano con la tunica bianca e il pallio rosso, testimoniano che era stata consacrata diaconessa. Nel 250 fu inviato a Catania il proconsole Quinziano il quale cercò di ottenere da Agata che abiurasse la sua fede. Agata rifiutò, e allora il proconsole la consegnò alle sacerdotesse di Venere, le prostitute sacre, perché vincessero le sue resistenze; ma Agata fu salda nella fede, e le sacerdotesse la riconsegnarono a Quinziano senza avere ottenuto nulla. Il proconsole allora, dopo un processo nel quale Agata si difese facendo sfoggio di abilità retorica, la fece imprigionare e sottoporre a diverse torture, culminanti nell’asportazione delle mammelle con delle tenaglie. Ma dopo questo martirio la santa fu visitata nel carcere da san Pietro che le risanò le ferite. Fu infine arsa viva sui carboni ardenti, e si racconta che quando morì a Catania la terra tremò. Dopo la sua morte i suoi amici più fedeli chiesero e ottennero il suo corpo che fu seppellito in un luogo segreto. Nel 1040 Giorgio Maniace, che era stato inviato in Sicilia dall’imperatore di Bisanzio, tornando in patria ne trafugò le spoglie, ma nel 1126 due soldati dell'esercito bizantino le rapirono nuovamente per consegnarle al vescovo di Catania. Il 17 agosto 1126, le reliquie rientrarono nel duomo di Catania. L’attributo principale di Sant’Agata è il piatto su cui reca le mammelle che le furono recise durante il martirio, talvolta accompagnato dalle tenaglie, e spesso indossa una veste bianca con manto rosso allusiva alla sua condizione di diaconessa. Nella Cattedrale di Palermo si conserva la reliquia del suo braccio.


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(12 marzo 2012) - Pubblichiamo il primo di una serie di articoli dedicati a Palermo e pensati per descrivere particolari itinerari della sua storia e della sua cultura. In questo contributo è narrato il patrimonio popolare di fede e memoria che è cresciuto nei secoli intorno alla devozione verso la “Santuzza” e che si ritrova nel corredo delle statue poste nel piano della cattedrale. Per delineare l’identità che Palermo ha raggiunto nel corso dei secoli, il prossimo articolo metterà a tema lo sviluppo urbanistico di questa città attraverso i Mandamenti. Nei successivi inserimenti saranno trattate le conseguenze esercitate sulla città dalle molte cifre artistiche e architettoniche intercorse nel tempo. Gli articoli sono a firma di Rita Martorana Tusa e sono il frutto della sua collaborazione al Centro Culturale “Il Sentiero” di Palermo (www.ilsentieropa.it). Ringraziamo entrambi. Sicily Present


 

 

(1) Memorie dal piano della CattedraleRita Martorana_Tusa 

Quando pensiamo ai Santi patroni di Palermo, oggi ricordiamo immediatamente solo Santa Rosalia, della quale tutti i palermitani conoscono almeno le notizie essenziali. Già più complicato, e per “addetti ai lavori”, è ricordare anche la presenza di quattro Sante – Agata, Ninfa, Cristina, Oliva – che per secoli sono state le protettrici della città, e che solo dopo la peste del 1624 sono state soppiantate dalla “Santuzza”. Sotto la loro protezione sono rimasti i quattro Mandamenti, i quartieri risultanti dal taglio della via Maqueda: Mandamento Palazzo Reale o Albergheria sotto la protezione di Santa Cristina, Mandamento Monte di Pietà o Capo con Santa Ninfa, Mandamento Tribunali o Kalsa protetto da Sant’Agata, Mandamento Castellammare o Loggia con Sant’Oliva. Ma tanti altri santi sono stati venerati nel corso dei secoli dalla Chiesa di Palermo, santi che oggi sono pressoché dimenticati, e insieme a loro gran parte del patrimonio di fede del popolo. Basti solo ricordare che nel secolo XVIII la nostra città contava quindici santi principali e venti santi ordinari. La venerazione dei santi patroni, siano essi della città, di un quartiere, di una corporazione o confraternita, è l’espressione infatti della religiosità più autentica di un popolo, per il quale la santità rappresenta la stoffa della vita cristiana e costituisce il reale compimento dell'umanità di ciascuno.

Ma cosa lega Agata, Ninfa, Cristina e Oliva alla città di Palermo, tanto da esserne diventate le patrone? Quali altri santi sono legati alla Chiesa di Palermo e alla storia della città? Un ideale itinerario di riscoperta dei santi palermitani, delle figure delle Sante patrone di Palermo, ma anche dei santi nati o vissuti o Palermo, e delle tracce devozionali, culturali e artistiche che il loro culto ha lasciato per tornare alle origini della religiosità più autentica della nostra città, per secoli radicata profondamente nella storia e nelle tradizioni, non può non avere come punto di partenza la Cattedrale, da sempre fulcro della vita religiosa della città, e luogo principale della memoria e del culto dei santi patroni.

Il “Piano della Cattedrale” infatti, usato nel corso dei secoli come cimitero, fiera, luogo di feste con apparati spettacolari e tribunale pubblico, mostra sulle recinzione marmorea che lo racchiude le statue di tutti i santi palermitani. Esse sono rivolte verso il Cassaro e danno le spalle alla Cattedrale, quasi poste a vegliare sulla città e a custodire e proteggere i suoi abitanti. La grande spianata antistante il fianco meridionale della chiesa era stata ampliata alla metà del XV secolo, e racchiusa da una balaustrata nel secolo successivo. Alla metà del XVII secolo l’architetto del Senato Gaspare Guercio ne progettò la sistemazione definitiva realizzando la recinzione con le statue delle Sante patrone e di altri Santi particolarmente legati alla storia della città: San Mamiliano, San Sergio, Sant’Agatone, Santa Silvia, e i Santi Eustozio (o Eustorgio), Procolo e Golbodeo. Si tratta di personaggi vissuti nell’età paleocristiana o nell’alto Medioevo, comunque tutti legati alle radici della chiesa palermitana.

Le statue furono realizzate dai maggiori scultori dell’epoca, tra cui ricordiamo Gaspare Guercio che eseguì le statue di Santa Rosalia, Santa Ninfa e Sant’Oliva; Carlo d’Aprile che fu incaricato di eseguire le statue di Sant’Agata, Santa Cristina, Santa Silvia, San Sergio e Sant’Agatone; Giovan Battista Ragusa che realizzò la statua di San Francesco di Paola, e Giovanni Travaglia che scolpì le figure di Sant’Agostino e San Mamiliano. Non manca comunque, in posizione preminente in asse con il portico meridionale, la statua di Santa Rosalia che si erge sulla «macchina marmorea» eretta nel 1745 da Vincenzo Vitagliano al centro del “Piano”.

All’interno della chiesa Cattedrale la memoria dei santi patroni è custodita nella Cappella delle reliquie, che venne allestita dal Cardinale Lualdi nel 1912 con lo scopo appunto di custodire le urne – risalenti al XVI e XVII secolo – dei santi palermitani, e lungo le cui pareti è posta la seguente iscrizione: «Ai fiori della Chiesa Palermitana / né le rose mancano né il gigli; / della loro santità esulta il cielo; / del loro patrocinio la nostra terra si allieta». Le storie della vita e dei miracoli di questi santi sono testimoniate per lo più da antichi martirologi e da racconti popolari, e spesso affondano le loro radici nella leggenda.

Santa Oliva nacque a Palermo nel 448 da una famiglia nobile convertita al cristianesimo, e si narra che fosse una fanciulla di rara bontà e bellezza, la quale fin da bambina aveva fatto voto di verginità consacrandosi a Dio. Quando nel 454 i Vandali conquistarono la Sicilia iniziò un periodo di persecuzioni per i cristiani, ma Oliva non volle rinnegare la sua fede. Per questo venne esiliata a Tunisi dove convertì numerose persone e operò diversi miracoli. Il governatore di Tunisi allora pensò di sbarazzarsi di lei abbandonandola nel deserto affinché venisse divorata dalle belve feroci o morisse di fame. Oliva invece ammansì le belve e in quel deserto visse parecchi anni. Un giorno alcuni cacciatori la scoprirono e cercarono di violentarla, ma furono convertiti anche loro. Il governatore allora la fece ricondurre in città e la sottopose a diversi tormenti ai quali Oliva sopravvisse, fino a quando fu decapitata, il 10 giugno del 463. Secondo la tradizione dopo la morte il suo corpo fu rapito da alcuni cristiani e fu sepolto segretamente a Palermo, in un luogo presso le mura della città che la tradizione ha da sempre identificato con il piano di Sant’Oliva (oggi piazza S. Francesco di Paola). Il suo corpo è custodito secondo la tradizione nella cappella a lei dedicata nella chiesa di San Francesco di Paola, in quello che viene definito «il pozzo di Sant’Oliva» anche se le ossa della santa non sono state mai trovate; quando il corpo sarà trovato, un cataclisma funesterà la Conca d'Oro, ma segnerà anche il principio di un'era di felicità.

Una leggenda simile era diffusa anche a Tunisi, dove esiste ancora una moschea che porta il nome di «Jāmi al-zaytūna», ovvero «Moschea dell'oliva»: questo perché in quel luogo era stata eretta una chiesa, che poi gli arabi convertirono in moschea, lasciandone però il nome tradotto in arabo; si crede che quando verrà rinvenuto il suo corpo l’Islam avrà fine. Il suo culto si diffuse in epoca normanna, mentre le notizie sulla sua vita compaiono in alcuni testi a partire dal XIV e XV secolo; la più antica raffigurazione della santa si trova in una piccola tavoletta del XII secolo conservata al Museo Diocesano di Palermo. I suoi attributi sono il ramoscello d’ulivo che allude al suo nome, e il turbante che ricorda il soggiorno a Tunisi.

Sant’Agata, vissuta nel III secolo, viene venerata come patrona perché ritenuta di origine palermitana, anche se la sua nascita viene contesa tra palermitani e catanesi: la sua casa sarebbe stata nella contrada della Guilla, dove già in epoca normanna esisteva la chiesa dedicata alla santa denominata appunto di Sant'Agata alla Guilla, e nella chiesa di Sant'Agata la Pedata si venera il sasso dove la santa lasciò le impronte dei piedi andando al martirio. Sant'Agata, consacratasi a Dio all'età di 15 anni, doveva avere circa 21 anni all’epoca del suo martirio. La tradizione orale catanese, i documenti agiografici e le raffigurazioni iconografiche che la raffigurano con la tunica bianca e il pallio rosso, testimoniano che era stata consacrata diaconessa. Nel 250 fu inviato a Catania il proconsole Quinziano il quale cercò di ottenere da Agata che abiurasse la sua fede. Agata rifiutò, e allora il proconsole la consegnò alle sacerdotesse di Venere, le prostitute sacre, perché vincessero le sue resistenze; ma Agata fu salda nella fede, e le sacerdotesse la riconsegnarono a Quinziano senza avere ottenuto nulla. Il proconsole allora, dopo un processo nel quale Agata si difese facendo sfoggio di abilità retorica, la fece imprigionare e sottoporre a diverse torture, culminanti nell’asportazione delle mammelle con delle tenaglie. Ma dopo questo martirio la santa fu visitata nel carcere da san Pietro che le risanò le ferite. Fu infine arsa viva sui carboni ardenti, e si racconta che quando morì a Catania la terra tremò. Dopo la sua morte i suoi amici più fedeli chiesero e ottennero il suo corpo che fu seppellito in un luogo segreto. Nel 1040 Giorgio Maniace, che era stato inviato in Sicilia dall’imperatore di Bisanzio, tornando in patria ne trafugò le spoglie, ma nel 1126 due soldati dell'esercito bizantino le rapirono nuovamente per consegnarle al vescovo di Catania. Il 17 agosto 1126, le reliquie rientrarono nel duomo di Catania. L’attributo principale di Sant’Agata è il piatto su cui reca le mammelle che le furono recise durante il martirio, talvolta accompagnato dalle tenaglie, e spesso indossa una veste bianca con manto rosso allusiva alla sua condizione di diaconessa. Nella Cattedrale di Palermo si conserva la reliquia del suo braccio.

Pagina 2

 

pianocattedrale280x210San Mamiliano fu vescovo di Palermo, ed è il patrono della diocesi. Le notizie su di lui sono piuttosto incerte, in quanto vi si intrecciano due tradizioni leggendarie diverse e in parte contraddittorie. Secondo alcuni agiografi visse alla metà del V secolo, probabilmente al tempo della dominazione dei Vandali. In seguito ad una persecuzione religiosa per opera del re Genserico, fu mandato con altri cristiani in esilio in Africa. Fu poi riscattato dall’esilio e dalla schiavitù con altri cristiani, e dopo diverse peregrinazioni giunse all’isola di Monte Giove, da lui ribattezzata Monte Cristo, dove visse molti anni in eremitaggio, e dove morì venerato come un santo. Il suo corpo fu poi trasferito e sepolto nell’Isola del Giglio. Questa tradizione trova una conferma nel fatto che a Montecristo esisteva fin dal VI secolo un monastero intitolato proprio a San Mamiliano. Sull’isola esiste inoltre la grotta di San Mamiliano, dove il santo visse da eremita; nella caverna pescatori e marinai portavano ex-voto per invocare e ringraziare Mamiliano per la sua protezione: il santo è ancora considerato nell’arcipelago toscano il patrono dei naviganti. Un’altra tradizione racconta che Mamiliano era vescovo di Palermo al tempo del prefetto Aureliano, nel IV secolo, e ne accomuna la storia a quella di Santa Ninfa, che sarebbe stata da lui battezzata. Fu infatti arrestato dal prefetto Aureliano insieme ad altri 200 cristiani, tra cui Ninfa, ma lui Ninfa e altri furono liberati da un angelo e condotti su una barca che li trasportò prima all’Isola del Giglio e poi a Roma, dove desideravano pregare sulle tombe degli Apostoli Pietro e Paolo. Una tradizione narra che qui il santo morì, mentre un’altra afferma che si recò sull’isola di Monte Giove, nell’arcipelago toscano, e qui stabilì il suo eremitaggio insieme ai suoi compagni, ribattezzando l’isola Monte Cristo. Originariamente le spoglie di Mamiliano furono conservate a Montecristo da un gruppo di monaci fino a quando nell’XI secolo le scorrerie musulmane costrinsero a portarle sulla penisola, per essere custodite nella chiesa di S. Maria in Monticelli a Roma. Si sa con certezza comunque che a Roma c’era soltanto il capo del santo. Nel 1666, per volere del papa Alessandro VII, le principali reliquie furono traslate a Palermo, dove si trovano ancora, nella Cappella delle Reliquie della Cattedrale.

La vita di Santa Ninfa, in gran parte nota da Codici del XII secolo, è strettamente legata alla vita di San Mamiliano, anche se in parte le due leggende si contraddicono. Era figlia di Aureliano, prefetto di Palermo persecutore dei cristiani, e fu convertita e battezzata dal vescovo Mamiliano. Arrestata e imprigionata a causa della sua fede, fu poi esiliata dalla città insieme al vescovo, lo seguì nei suoi pellegrinaggi finchè egli morì dopo avere visitato a Roma le tombe degli apostoli. Ninfa lo fece seppellire in una località sulle coste del Lazio, dove anche lei fu seppellita alla sua morte, dopo essere poveramente vissuta da eremita. Dopo la sua morte gli abitanti del luogo, duramente provati da una lunga siccità, pregarono la santa di intercedere per loro, e dal luogo della sua sepoltura miracolosamente sgorgò una fonte. Dopo il miracolo i cristiani cominciarono a venerarla come una santa. Il suo emblema è un vaso pieno di fiamme ardenti, allusione all’ardore della fede.

Le prime notizie riguardanti Santa Ninfa risalgono ad un documento pontificio di papa Leone IV (847-855), che cita la chiesa della beata Ninfa martire, nella città Portuense (Fiumicino) e reliquie della santa si trovavano in diverse chiese di Roma; la sua testa era venerata nella chiesa romana di Santa Maria in Monticelli. Il culto della santa nella città di Palermo è antichissimo; il 5 settembre 1593 l'urna argentea contenente la testa della santa fu solennemente traslata dalla chiesa romana di Santa Maria in Monticelli a Palermo, sua città natale. Una solenne processione dal porto percorse lo stradone Colonna e il Cassaro addobbati con sontuosi apparati effimeri, e l’evento fu celebrato con grandi feste che durarono diversi giorni.

A Santa Ninfa è dedicata la Chiesa dei Padri Crociferi, che fu una delle prime ad essere realizzata lungo il nuovo asse di via Maqueda, sul margine del mandamento dedicato alla stessa santa. Nel presbiterio della chiesa si ammira la grande pala d’altare dipinta da Gioacchino Martorana nel 1768 raffigurante S. Ninfa con le Vergini Palermitane (Agata, Oliva, Rosalia), l’Immacolata, S. Giuseppe e la SS. Trinità: la Santa, riconoscibile per il vaso con il fuoco, è raffigurata nell’atto di rivolgersi al cielo, dove appaiono la Madonna Immacolata, San Giuseppe e la Trinità. Nella parte inferiore del dipinto sono invece rappresentate le altre Sante Vergini patrone di Palermo: riconosciamo Agata e Oliva, mentre Cristina, che era l’unica di nascita non siciliana, è stata sostituita da Santa Rosalia.

Santa Cristina è nata a Bolsena nel III secolo, ma viene venerata a Palermo perché le sue reliquie nel XII secolo furono portate nella città. Era figlia di un ufficiale dell’imperatore Settimio Severo, e all’età di undici anni, essendosi convertita al cristianesimo, venne segregata dal padre in una torre finchè avesse onorato i simulacri degli dei pagani. La prigionia però non riuscì a piegare la fanciulla, e allora, per farle abiurare la fede cristiana, il padre la fece sottoporre a terribili tormenti; infine venne gettata nel lago di Bolsena con una pesante macina al collo; la pietra però, miracolosamente divenuta leggerissima, si mise a galleggiare e la riportò a riva sana e salva. Per questo viene raffigurata con una mola al fianco o al collo. Davanti al miracolo al padre si spezzò il cuore e morì. Il suo successore riprese con le persecuzioni, ma senza piegare la fede della ragazza: fu flagellata, gettata in una caldaia d’olio bollente, finchè finalmente mori trafitta dalle frecce. La memoria di questa santa si ritrova nella austera chiesetta normanna di Santa Cristina La Vetere, fondata dall’arcivescovo Gualtiero Offamilio nel 1174, nel luogo dove nel 1160 una nave risalendo il Papireto aveva trasportato le reliquie della santa.

San Sergio papa, nato a Palermo, fu eletto pontefice nel 687 durante uno scisma causato dalla triplice elezione sua, dell’arciprete Teodoro e dell’arcidiacono Pasquale ad opera di opposte fazioni. Rimasto unico papa, viene ricordato particolarmente per la fermezza con cui si oppose all’imperatore di Bisanzio sulla questione del celibato dei preti e perché introdusse la raffigurazione di Gesù sotto forma di Agnello. A lui si deve l’introduzione del canto dell’Agnus Dei nella Messa.

Sant’Agatone papa, patrono della provincia di Palermo, era nato a Palermo da una famiglia benestante. Alla morte del padre vendette i suoi beni distribuendo il ricavato ai poveri e si ritirò nel convento palermitano di S. Ermete. Nel 678 fu eletto papa, e benché l'anno della sua nascita sia sconosciuto, si narra che avesse più di cento anni all'epoca della sua elezione. Morì nel 681. Sotto il suo pontificato furono celebrati due concili che condannarono l’eresia monotelita, diffusa particolarmente in Oriente, in seguito ai quali l’imperatore di Bisanzio abbandonò il monotelismo e riprese relazioni diplomatiche con Roma. Ad Agatone si deve anche il rinnovamento dell’iconografia cristiana con la diffusione della raffigurazione del Cristo crocifisso, al posto della più antica rappresentazione simbolica di Cristo come un Agnello con la croce sul dorso. Santa Silvia, madre di Gregorio Magno, viene considerata siciliana e venerata a Palermo per il fatto che il papa istituì sei monasteri in Sicilia (tra cui quello di S. Ermete poi divenuto S. Giovanni degli Eremiti), dotandoli dei suoi beni, ma di lei non si hanno notizie approfondite.

I Santi Eustozio, Procolo e Golbodeo, infine, anche se non vengono menzionati negli antichi martirologi, sono ricordati dalla tradizione tra i compagni di Ninfa e Mamiliano, che seguirono nelle loro peregrinazioni. Si narra che Santa Ninfa, la quale viveva accanto alla Cattedrale, osservasse dalla finestra della sua casa i movimenti di un giovane diacono di nome Golbodeo, il quale insieme al vescovo Mamiliano insegnava la fede cristiana nella Cripta della Cattedrale stessa. Attraverso di lui Ninfa ricevette il battesimo da Mamiliano. Quando il padre della fanciulla lo scoprì fece imprigionare Ninfa insieme a Mamiliano e Golbodeo, ma un angelo li liberò dalla prigione e li portò in salvo su una nave. Da qui in poi la leggenda si unifica a quella di Ninfa e Mamiliano. Reliquie di Mamiliano e dei suoi compagni nel IX secolo furono traslate a Civitavecchia e a Sovana; nel 1098, sotto Urbano II, parte delle reliquie furono traslate a Roma nella Chiesa di S. Maria in Monticelli; da lì, nel 1666 da Roma alcune reliquie dei Santi Eustozio, Procolo e Golbodeo furono traslate a Palermo, e sono custodite insieme a quelle degli altri santi nella cappella delle reliquie.

Le storie di questi santi, ormai oscuri e dimenticati, sono veramente un patrimonio su cui si radica l’identità dei palermitani, oltre che la storia di questa città. Le chiese a loro dedicate e le opere d’arte realizzate in loro onore sono i segni attraverso i quali nel corso dei secoli il popolo cristiano è stato educato a vivere il rapporto col Mistero. Segni, in quanto il santo non è il protettore esclusivamente del luogo fisico, ma il custode dell’anima del popolo. In esso la città si riconosceva, e voleva che nel nome dei santi fossero segnati i suoi luoghi più rappresentativi, immagine visibile della protezione di Dio su di essa.


Bibliografia essenziale

- Chirco A., Palermo. La città ritrovata, Palermo, Flaccovio, 1997.
- De Seta C., Spadaro M. A., Troisi S., Palermo. Città d’arte, Palermo, Kalós, 2002.
- Palazzotto P., Sante e Patrone nelle chiese di Palermo, Bagheria, Officine Tipografiche Aiello & Provenzano, 2005.

 

 


 

Nella photogallery sono contenuti diversi scorci del piano della Cattedrale di Palermo e molte delle statue poste sulla balaustrata antistante il portico meridionale e scolpite per rinnovare nel tempo la memoria di figure notevoli della storia ecclesiale palermitana e siciliana. 

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