«Pari n’eternità ca ti canusciu»: il Fedro in siciliano

 

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(15 novembre 2013) – Mercoledì 13 novembre la giovane speaker di Radio Time Sofia Muscato ha regalato sorrisi e riflessioni a giovani e meno giovani presso l’Aula Seminari di Lettere e Filosofia dell’Università di Palermo con la sua versione in dialetto siciliano del Fedro platonico.

Fedro sta per uscire dalle porte della città e vedendo Socrate lungo la via fa di tutto per non essere visto e tormentato dalla sua irrefrenabile parlantina. Socrate però lo ferma e, con non poche insistenze, ottiene di sentire ciò che lui e Lisia si erano detti: l’amato ideale è “cu ri tia sinni futti (non se ne interessa)”! Socrate, come in una commedia, espone fisicamente la sua insofferenza verso quelle parole così ben architettate e così poco sentite, come del resto aveva poco prima riso degli aneddoti mitologici (avvenuti, secondo le narrazioni, proprio sotto quell’albero sotto il quale ora i due parlano) tirati in ballo da Fedro per sviare il discorso: perché appricarisi (cioè interessarsi) a sti minchiati? “Se del ciel vuoi conoscere il riflesso prima di tutto conosci te stesso”. Contro la sterilità di certe affermazioni Socrate tira subito fuori l’armeria pesante, i due maggiori cantori di forti sentimenti e dubbi profondi del suo popolo: Saffo e Omero, seguendo quel ragionamento, su na para ri scecchi (una manica d’asini)! Non può essere realmente così, può l’amante tenere all’amato “come i lupi tengono agli agnelli”? Cioè desiderando non il compimento dei suoi desideri, ma la sua sfortuna, così che abbia sempre bisogno di lui? No: l’anima, tra una metempsicosi e l’altra, vede gli archetipi della Bellezza, della Giustizia, della Verità... e se ha avuto un occhio attento ne porta con sé lo sfumato ricordo. E così, se il cavallo nero dell’istinto erotico galoppa irrefrenabile alla vista dell’oggetto dei suoi desideri, il bravo auriga lo frena perché vede nell’amato ciò che ricorda vagamente d’aver già visto: “pari n’eternità ca ti canusciu”. L’amato è chi corrisponde a quel desiderio di cose grandi che portiamo nel cuore.

Il Fedro in Siciliano ha soffiato via la polvere da uno di quei libri che ormai definiremmo “classici”. Perché, come ci ricorda Pennac, i classici sono spesso vittime dei nostri imperativi categorici (“bisogna leggere! Bisogna leggere!”) e contemporaneamente della nostra dimenticanza: la loro autorità ci impone il rispetto formale così come l’assoluta inibizione nello sfogliarli.

Certo, per testi come quello di Platone è difficile non essere tirati fuori dallo scaffale quantomeno da specialisti che li sottopongano ad analisi filosofiche o filologiche. Tuttavia difficilmente possiamo pensare che quel Socrate platonico (che poi è Platone stesso), che, vedendo un amico in procinto di uscire dalle mura, lo ferma e lo inquieta (nel senso dialettale di “annoiare, dar fastidio”), avrebbe voluto questo; senza nulla togliere appunto agli specialisti, che sottraendo all’oblio dei secoli le opere destinate all’eternità, le restaurano o le interpretano, ma, si suppone, perché poi ne attingano coloro i quali possano e vogliano.

Sofia Muscato, forse poco “rispettosa” ma fortemente appassionata, ha voluto riportare il Fedro a quello che è: un mito, cioè ciò con cui il filosofo porge la materia filosofica non solo al non specialista quanto soprattutto a sé stesso nel momento in cui arriva al “sentiero interrotto” (Heidegger), cioè al culmine insuperabile del ragionamento filosofico puro. E lei, tra una risata e l’altra, ne ha consegnato il testimone, aiutata da una lingua freschissima, che penetra nel sangue e nella carne.

 

 

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