La giustizia di Rosario Livatino non finisce il 21 settembre 1990

 

Sono trascorsi venticinque anni dall’assassinio di Rosario Livatino. Il giudice di Canicattì cade sotto i colpi di un agguato mafioso la mattina del 21 settembre 1990 lungo la strada statale 640. Anche quel venerdì era diretto senza scorta al tribunale di Agrigento, dove dal 1979 con dedizione portava avanti la sua azione giudiziaria mettendola in atto in indagini complesse e difficili chiuse con successo. Ieri è stato il giorno del ricordo nella sua città e nelle altre dove ne sono rimaste indelebilmente impresse negli annali del tempo la memoria e le opere.

Rosario Livatino è stato sottratto alla vita con mano violenta quando non ha ancora compiuto trentotto anni, dodici li vive lavorando in magistratura e interpretandone il compito mettendosi a paragone con i princìpi che la giustizia evoca come fattore di civiltà.

Sono noti i risultati investigativi e giudiziari raggiunti nella sua azione di contrasto alla criminalità di stampo mafioso. Ne sono attenta documentazione diversi documentari, libri e film: Il giudice ragazzino, scritto da Nando Dalla Chiesa, diventa premessa di un lungometraggio diretto da Alessandro Di Robilant. Altri aspetti riguardanti la ricostruzione dell’agguato sono descritti nel film per la regia di Pasquale Possezzere Testimone a rischio che, invece, si sofferma sulle fasi del processo che ne segue e sulle storie umane che si intrecciano quella mattina di settembre.

Dalla storia di Livatino apprendiamo insegnamenti e cogliamo esempi che non possiamo smarrire e siamo chiamati a conservare come memoria perenne. Nella sua terra ci sono fin troppe pagine oscure che con difficoltà la giustizia arriva a illuminare, offrendo la certezza di un giudizio che arrivi presto e resti senza equivoci per dare voce alla verità dei fatti. L’orizzonte umano di una società si misura anche in relazione al rispetto verso il dolore di chi piange la vittima. Livatino ha reso testimonianza al valore vivo e autentico che la giustizia deve assumere ed esprimere durante la fase della sua applicazione, quando si esercita come norma volta per volta confrontata con circostanze e cose perché il bene di ogni persona sia l’ultima parola.

La giustizia per cui Livatino lavora e lotta ha di fronte la prospettiva della verità cercata e voluta come occasione di compimento individuale e pubblico, perché il diritto non è veramente tale se nell’insieme delle norme non ha come fine la persona e il suo destino di bene. Molto ancora scopriremo e conosceremo delle ragioni che hanno mosso l’esistenza di questo giudice siciliano di Canicattì, la stessa città del magistrato Antonino Saetta, anche lui assassinato per mano mafiosa insieme al figlio due anni prima. Giovanni Paolo II lo ha presentato come «un martire della giustizia e indirettamente della fede». Da quattro anni è in corso il processo di beatificazione avviato con il decreto che porta la firma dell’arcivescovo di Agrigento Francesco Montenegro. Rosarino Livatino è tra coloro che della giustizia hanno avuto «fame e sete» e che del proprio lavoro hanno fatto occasione di bene per tutti. La sua parabola terrena giunge fino all’estremo sacrificio della vita; ma non si conclude quel giorno di settembre.

 

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