“Ciò che inferno non è”: Alessandro D’Avenia racconta la speranza di 3P


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Alessandro D’Avenia,Ciò che inferno non è, Mondadori 2014


 

 

Rivive sabato 8 novembre ai Cantieri Culturali della Zisa di Palermo, attraverso la presentazione dell’ultimo romanzo di Alessandro D’Avenia, la vicenda umana di don Puglisi e, con essa, il dramma di ombra e luce, di rassegnazione e di speranza, che segna tanta parte della storia di questa terra.

Ad introdurre il pubblico di giovani al significato di Ciò che inferno non è (Mondadori 2014), ultima fatica dello scrittore palermitano che vive e insegna a Milano, già autore dei best sellers Bianca come il latte rossa come il sangue e Cose che nessuno sa, Pietro Grasso, Presidente del Senato e testimone, a Palermo, della stagione delle stragi di mafia e dell’assassinio di don Pino che il libro ripercorre attraverso gli occhi e le domande di Federico, l’adolescente protagonista del racconto.

«Le pagine del romanzo – afferma Grasso – rievocano con efficaci pennellate il contesto di incertezza in cui l’Italia si trovava all’indomani delle stragi di mafia del ‘93». L’immagine che ne viene fuori è cosparsa dai detriti del tratto di autostrada di Capaci e dai «brandelli dei corpi dilaniati scaraventati sino agli ultimi piani dello stabile in via D’Amelio». Dentro quell’inferno e dentro l’opacità distratta della vita di tanta gente – racconta Alessandro D’Avenia – «come in un quadro di Caravaggio, non si sa da dove, irrompe un fascio di luce che, senza alcun idealismo, squarcia le tenebre della quotidianità». Quel raggio di luce è presente tra i corridoi del Liceo frequentato da Federico: è il sorriso di Padre Pino Puglisi. Lo stesso sorriso che Alessandro D’Avenia, allora studente, e i suoi compagni incontravano a scuola. Lo stesso che 3P ha rivolto ai suoi assassini pronunciando quel disarmante «Me l’aspettavo» e per il quale l’uomo che gli ha sparato, Salvatore Grigoli, il “Cacciatore”, dice di non averci dormito la notte. Un sorriso ed uno sguardo rivolti a tutti, ma soprattutto ai ragazzi della sua parrocchia a Brancaccio.

«Non si trattava di un prete-antimafia – ammette il Presidente del Senato – era solo un “prete”»; insignificante agli occhi dei più. Non certo a quelli dei mafiosi che, nelle intercettazioni , ne constatavano la pericolosità perché «si porta i picciriddi cu iddu».

In un contesto di prevaricazione in cui i bambini sembrano posti davanti all’unica scelta possibile: quella tra l’essere prede o divenire cacciatori, il sacerdote indica loro un’altra strada: quella che conduce alla santità come compimento dell’umano. «In quella zona d’ombra in cui luce e tenebra si lambiscono e in cui una stessa parola , come “parrino”, può indicare il padrino mafioso o il prete – commenta lo scrittore – la mafia riconosce in lui un potere uguale e contrario al proprio, ma superiore perché ottiene il consenso senza ricorrere alla violenza».

Si tratta dell’attrattiva generata dalla bellezza, dal dilatarsi di “ciò che inferno non è” e che vince la sporcizia del male. Una realtà che si fa largo non per un eroismo straordinario, ma per la straordinaria capacità di fare bene le cose di ogni giorno: a scuola, sul lavoro, in parrocchia. Si chiama educazione. Occorre, però – afferma D’Avenia – che soprattutto i ragazzi abbiano la possibilità di incontrare «qualcuno che dica loro per cosa vale la pena di spendere la vita».

In questo tempo triste in cui l’ideale più alto sembra essere quello eutanasico del morire senza soffrire, la tomba a forma di spiga di frumento di Padre Puglisi ricorda a tutti che per costruire la città di Dio dentro la città degli uomini «non basta evitare il male, il bene bisogna farlo». Fino al sacrificio di sé, seguendo quel sorriso ovunque si palesi, fosse anche tra pagine di un romanzo. 

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