“Convertitevi!”. Intervista ad Alfio Pennisi, presidente del Centro Culturale di Catania

 

 

Proseguiamo gli interventi di commento alla lettera dei Vescovi siciliani in occasione del 25° anniversario dell’appello lanciato nella Valle dei templi da San Giovanni Paolo II. Pubblichiamo oggi l’intervista ad Alfio Pennisi, già Dirigente scolastico del Liceo Nicola Spedalieri di Catania, nella sua qualità di Presidente del Centro Culturale di Catania.

Partiamo da quel giorno. Dov’era e come lo ricorda?

Il 9 maggio del 1993, io non c’ero, ad Agrigento, intendo. E neanche in Sicilia, o in Italia. Vivevo, da un paio d’anni, in Egitto, al Cairo, dove insegnavo e facevo il preside nella scuola italiana “Leonardo da Vinci”. Dell’intervento di San Giovanni Paolo II nella Valle dei Templi, quindi, non avevo alcun ricordo personale; anche la memoria mediatica dell’evento era piuttosto offuscata, visto che, nel paese delle piramidi, gli echi di ciò che avveniva in Italia arrivavano sovrastati dal fragore delle vicende locali. Questo, fino a quando la lettera dei Vescovi siciliani non mi ha “costretto a conoscere, a rievocare”. E così sono andato a cercare le testimonianze video del veemente intervento del Santo Padre, che mi hanno fatto ri-scoprire un evento decisamente straordinario.

Quali aspetti dell’intervento del Papa di quel giorno e della Lettera dei Vescovi siciliani l’hanno colpita particolarmente?

Due innanzitutto. Il primo: l’accoratezza e, insieme, la fine e intelligente sensibilità con cui Giovanni Paolo II tradusse in siciliano - dicono proprio così i Vescovi - l’augurio liturgico della pace, collocandolo nell’affascinante cornice storica, artistica, religiosa e culturale che ospitava quella giornata. Egli richiamò, in particolare, il vicino tempio greco della Concordia, ammonendo che tale concordia fosse “senza morti, senza assassinati, senza paure, senza minacce, senza vittime”. Acutamente i Vescovi ci ricordano che le parole del Papa erano tutto fuor che generiche: “Erano gli anni in cui […] continuavano a cadere sotto i colpi della mafia molti leali servitori delle istituzioni e non pochi coraggiosi esponenti della società civile”. Ma va fatta una sottolineatura.

Quale?

Quella secondo cui i Vescovi, richiamando le parole che lo stesso Giovanni Paolo II indirizzò, nel giugno del 1995, ad un gruppo di pellegrini siciliani, ricordano che destinatari di quel “Convertitevi!” erano sì i mafiosi, ma anche tutti i siciliani: “Voi dovete assumervi il vigoroso impegno di proseguire nello sforzo di dare alla vostra terra un volto rinnovato, degno della cultura e della civiltà cristiana che ha segnato la vostra Isola”.

E il secondo?

Riguarda la chiave di lettura della mafia che le parole del Papa proposero in quella memorabile giornata. Dicono infatti i Vescovi: “San Giovanni Paolo II forniva un’efficace chiave di lettura del crimine mafioso. La mafia si configura non solo come un gravissimo reato, ma anche come un disastroso deficit culturale e, di conseguenza, come un clamoroso tradimento della storia siciliana. Più precisamente, come un’anemia spirituale. E, per questo motivo, anche come un’incrinatura fatale nella virtù religiosa, che finisce così per risultare depotenziata e travisata”.

Perchè la mafia è definita come incompatibile col Vangelo?

Nella lettera è detto con chiarezza, perchè “è un problema che tocca la Chiesa, la sua consistenza storica e la sua presenza sociale […] ed è un problema che ha dei contraccolpi anche sull’autoconsapevolezza della Chiesa e sull’immagine che di sé essa offre”. La testimonianza di tale incompatibilità assume il carattere del martirio nella figura del beato Pino Puglisi, ucciso dalla mafia a Palermo nel settembre di quello stesso 1993: credo si possa dire che la sensibilità dei Vescovi siciliani è la stessa che sta muovendo Papa Francesco nel suo viaggio in Sicilia proprio in occasione del XXV anniversario del martirio di don Pino Puglisi.

Lei è uomo di scuola. Cosa dicono le parole del Papa e dei Vescovi siciliani rispetto ai giovani ed alla questione educativa?

Le loro parole hanno certamente un carattere decisamente innovativo. Dopo un periodo, infatti, in cui la Chiesa ha rischiato di veder caratterizzata la propria posizione pubblica di fronte alla mafia dal silenzio, il rischio odierno è quello - dicono i Vescovi - “di passare dal silenzio alle sole parole […] Deve preoccuparci che il nostro discorso soffra di una certa inefficacia performativa: cioè non giunga a interpellare e a scuotere davvero i mafiosi […] deve preoccuparci che il discorso cristiano sulle mafie sia rimasto troppo a lungo solo sulla carta e non si sia tradotto per decenni e non si traduca ancora in un respiro pedagogico capace di far crescere generazioni nuove di credenti”. È dunque quello educativo – più della denuncia, più delle pubbliche accuse, più dei proclami - l’impegno che deve vedere coinvolta la Chiesa nei confronti del fenomeno mafioso e delle persone in esso implicate. Esso deve mirare a ricostruire, in particolare tra i giovani, un rinnovato senso di appartenenza ecclesiale in forza della quale appaia evidente lo spessore esistenziale della fede e la sua incompatibilità con modelli, convinzioni, comportamenti, pratiche da essa distanti. “È la conversione la meta verso cui tutti dobbiamo puntare e verso cui anche i mafiosi devono avere l’umiltà e il coraggio di muovere i loro passi”.

Il tessuto relazionale, sociale ed economico della nostra terra è tutt’ora fortemente permeato dalla presenza della mafia. In che misura le parole di Giovanni Paolo II e dei Vescovi possono contribuire a cambiare le cose?

Posso rispondere facendo riferimento ad una personale esperienza pastorale che, da numerosi anni ormai, conduco all’interno del carcere di Piazza Lanza a Catania, insieme agli altri volontari della Cappellania. All’interno delle diverse attività che realizziamo (diversi “laboratori” - teatrale, artigianale, taglio e cucito, cineforum ecc. - , colloqui individuali, preparazione ai Sacramenti e altro ancora), noi incontriamo uomini e donne che, nella migliore della ipotesi, sono solo permeati di mentalità mafiosa; assai spesso, invece e purtroppo, sono esplicitamente e convintamente inseriti in organizzazioni di tipo mafioso, la cui forza di impatto e condizionamento culturale, sociale, economico è notevolissima.

E dunque?

Ebbene, in tale contesto, la preoccupazione educativa espressa dal Papa e dai Vescovi siciliani si rivela quanto mai pertinente. È infatti evidente a tutti noi che operiamo in tale contesto il fatto che proclami e affermazioni di principio sono controproducenti, in quanto rischiano di relegare la relazione con le persone ad un ambito astratto di valori o idee, ponendo quasi una precondizione all’incontro e alla relazione umana. Gesù non chiese ai mafiosi del suo tempo – poniamo, a Zaccheo – di cambiare prima di andare a casa sua. Lui lo vide sull’albero e si fece invitare a casa sua, e poi Zaccheo capì che doveva cambiare. E così è per noi: la possibilità che gli uomini cambino è realmente affidata alla portata persuasiva ed educativa della nostra relazione con i detenuti e dei piccoli gesti di carità che accompagnano tale relazione. Se, in questa relazione, queste persone incontreranno uno sguardo che, senza sottovalutare, censurare o mistificare il male commesso e – al contempo - senza porre precondizioni morali o ideologiche, è tuttavia uno sguardo di perdono e speranza, esse potranno forse intuire che vi è un’appartenenza esistenziale - quella della fede - più conveniente e convincente di quella mafiosa e potranno decidere, se lo vorranno, di aderirvi.

 

 

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