“Convertitevi”. Intervista a Salvatore Falzone, avvocato nisseno

Continuiamo a commentare la Lettera dei Vescovi siciliani in occasione del 25° anniversario dell’appello lanciato nella Valle dei templi da San Giovanni Paolo II. Oggi diamo la parola a Salvatore Falzone, avvocato, scrittore e esponente del laicato cattolico nisseno.

 

Che giudizio ha dato del contenuto della lettera dei Vescovi siciliani?

Assai positivo. È una sorta di lettera aperta, indirizzata a tutti, non solo ai siciliani. Una specie di circolare pastorale lontana dalle manfrine di mafiologi e sociologi. Il contenuto è figlio di una visione lucida tanto del fenomeno mafioso quanto delle peculiarità della realtà ecclesiale. Ne ho apprezzato poi lo stile discorsivo, non istituzionale, né parenetico o devozionale. E anche il registro comunicativo più che analitico.

 

Quale intento vogliono cogliere i nostri Pastori a suo avviso?

L’intento è chiaro ed espressamente dichiarato. A venticinque anni da quelle parole passate alla storia i pastori dell’Isola riflettono innanzitutto sulla specificità dell’annuncio del Papa lungo le tappe della sua terza visita apostolica in terra di Sicilia. E si chiedono: fu la suggestione dello scenario ellenico a stimolare quell’ultimo saluto “a braccio”? Oppure la formula rituale dell’“Andate in pace” al termine della messa? Wojtyla disse testualmente: “Vi auguro, come ha detto il diacono, di andare in pace e di trovare la pace nella vostra terra”. Un quarto di secolo dopo i Vescovi siciliani affermano che il Papa, in quell’occasione, tradusse “in siciliano” l’augurio liturgico della pace, facendone cioè una ben precisa contestualizzazione.

 

Più volte nel testo si fa riferimento alle vittime della mafia. È solo un doveroso riconoscimento per i morti o anche un monito per i vivi?

In questo documento i Vescovi si soffermano sul dovere del ricordo delle vittime di mafia: uomini dello Stato e delle forze dell’ordine, magistrati, sindacalisti, giornalisti, politici, imprenditori e commercianti. Di qui il “grato tributo” verso coloro che hanno lottato per liberare il popolo siciliano da una forza maligna sostenuta da “poteri occulti e forti”, capace di insozzare politica e pubblica amministrazione. Capace perfino di indurre “qualche ministro di Dio”, vigliacco e infedele, a piegarsi alla “civiltà della morte” e a calpestare il Vangelo. Non è ancora tutto.

 

Cioè?

I Vescovi affermano che “la mafia è peccato, cioè rifiuto di Dio” e prevaricazione delle sue creature. Dunque i mafiosi sono tutti peccatori: gli assassini e i colletti bianchi. Peccato è anche l’omertà. Peccato grave è la mentalità mafiosa fatta di piccoli gesti di quotidiana prevaricazione. Peccato gravissimo è l’azione mafiosa portata a compimento in prima persona o anche solo commissionata. Quindi siamo ben oltre la necessaria denuncia.

 

E, quindi, qual è a suo giudizio la preoccupazione che muove i Vescovi?

Passare dal silenzio alle sole parole: il problema non è la brevissima risonanza delle condanne pubbliche nell’odierna società mediatica, ma il fatto che esse non vengono ascoltate nelle parrocchie e nelle strade.

 

Bastano, allora, i documenti ecclesiali per scuotere i mafiosi?

Certamente no. Lo dicono gli stessi vescovi: serve un piano di “battaglia” per formare piccoli e grandi, giovani e adulti, gruppi e famiglie, nelle parrocchie e nelle associazioni. La catechesi dev’essere sistematica, il più possibile pratica e contestuale. Puglisi, Livatino? Non semplici vittime di mafia, ma martiri.

 

Nella lettera si fa riferimento anche alla pietà popolare e si dice: Dobbiamo tornare a preoccuparci e a occuparci della pietà popolare, interpretandola non solo fatto sociale ormai anacronistico, bensì come fatto interno alla vita della comunità ecclesiale. Come giudica queste parole alla luce della sua esperienza?

La lettera chiarisce innanzitutto il significato della famigerata “scomunica”. Che fare di fronte all’affiliato mafioso che continua a farsi il segno della croce, ad andare a messa e partecipare a processioni e riunioni confraternali? Interessante, no?

 

Appunto, che fare?

Risvegliare il senso dell’appartenenza ecclesiale e mettere in chiaro che se la Chiesa può lanciare una scomunica a norma di diritto canonico ancor più c’è una “scomunica di fatto” cui i mafiosi si autocondannano. Per questo i vescovi, come Giovanni Paolo II, si rivolgono agli appartenenti a Cosa Nostra che “vivono nel male e nel peccato” violando le leggi dello Stato e quelle di Dio: convertitevi, la salvezza è possibile anche per voi. Non si può infine non condividere l’appello a sfruttare ogni occasione: il catechismo agli adolescenti (senza escludere i figli dei mafiosi), le celebrazioni del battesimo, della prima comunione e della cresima; le omelie funebri delle vittime di mafia e – dove e quando fattibile – degli stessi appartenenti alla mafia.

 

 

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