«La spartenza»: l’arte del “cuntu” di Tommaso Bordonaro


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Tommaso Bordonaro, La spartenza, a cura di Santo Lombino, prefazione di Goffredo Fofi, Navarra Editore 2013


 

 

 

(30 novembre 2013) – La fortuna di un libro non è data dal suo titolo, però se azzeccato il titolo concorre al suo successo e alla sua memoria. Tommaso Bordonaro aveva intitolato i quaderni che raccontavano la sua vita, e che, consegnati a Santo Lombino, percorsero un iter straordinario che condusse al Premio diaristico Pieve Santo Stefano e alla pubblicazione da Einaudi, «La storia di tutta la mia vita da quando io rigordo ch’ero un bambino». Titolo niente male, che faceva pensare a quelli chilometrici dei film di Lina Wertmuller. Natalia Ginsburg, la sponsor più autorevole e determinata di ‘u zu Masinu, suggerì invece, ricavandolo dal singolare epilogo, «Un po’ bene un po’ male». Ma a prevalere fu alla fine il titolo proposto da Santo Lombino: «La spartenza», tra tutti il più suggestivo.

«Spartenza» è una parola del nostro dialetto arcaico che, come tante altre, non è traducibile in italiano. Sul Mortillaro alla voce «spartenza» si legge: «Il partire, il dividersi l’uno con l’altro con pena». Non vi è termine nella lingua di Dante che esprime il dolore lancinante, la sofferenza atroce dell’emigrazione, il dovere separarsi dai propri luoghi e affetti. Si potrebbe dire, con un gioco di parole, che se «partire è un po’ come morire», spartire è peggio. Vi è una s privativa che toglie alla partenza ogni prospettiva positiva: se la partenza può condurre a un approdo sereno o a una meta agognata, ciò non accade con la spartenza; la spartenza non è assistita da speranza alcuna, a escluderla, la speranza, è il lessico stesso. La s che precede la partenza è inoltre avversativa: dà il senso del contrasto, dello spiazzamento. Un esempio di s avversativa nel nostro dialetto si ha nei verbi cunsari e scunsari: mentre il primo assume il significato oltre che del condire dell’aggiustare, del mettere in sesto, il secondo indica il guastare, il mettere a soqquadro. La spartenza è uno stravolgimento di piani, esclude una serena pianificazione (l’emigrazione è dettata dall’emergenza del bisogno, e l’emergenza è l’antitesi della programmazione), che il più delle volte, invece, è alla base della partenza. I nostri nonni dicevano: «È arrivata la “spartenza in vita”» accostando quel distacco forzato al distacco estremo, all’ultimo, irrimediabile congedo.

Con questo indovinato titolo il libro di Tommaso Bordonaro, pubblicato nel 1991 da Einaudi, divenne un “caso letterario” precedendo Terra matta di Vincenzo Rabito, vincitore dello stesso premio nel 2000 e sette anni dopo edito sempre da Einaudi.

Quali i motivi del successo de La spartenza di Tommaso Bordonaro?

Essenzialmente due: il valore di testimonianza sociale del libro, la potenza affabulatoria del linguaggio.

Con La spartenza Bordonaro racconta la sua vita, non priva di gioie e sofferenze, anche acute, dominata dalla fatica, lacerata dalla “spartenza”. Ma la sua vita, per quanto singolare e irripetibile – come singolari e irripetibili sono le esistenze di tutti gli uomini –, è simile a quella dei tantissimi siciliani poveri di un periodo ricompreso tra la fine dell’Ottocento e la metà del secolo appena corso costretti a subire la spartenza; e non solo dei siciliani, ma anche degli italiani poveri di quell’epoca, come sottolinea Goffredo Fofi nella prefazione della recente edizione di Navarra. Sotto questo profilo La spartenza si colloca nella ricca e significativa letteratura dell’emigrazione, che in Sicilia vanta vari esempi: da Gli americani di Ràbbato di Luigi Capuana alle lettere degli emigrati di Castelbuono che il raffinatissimo scrittore madonita Antonio Castelli inserì in Entromondo, ai racconti degli emigrati di Delia che Stefano Vilardo pubblicò nella loro versione integrale, senza nulla aggiungere e nulla togliere, in Tutti dicono Germania Germania, disponendoli in versi perché vi riconobbe una intrinseca forza lirica.

La differenza tra le opere citate e La Spartenza è che mentre in quelle siamo dinanzi a elaborazioni di letterati, seppure sia Castelli che Vilardo riprodussero le autentiche testimonianze delle voci raccolte, Bordonaro, contadino semianalfabeta con una padronanza assai approssimativa della lingua italiana, era del tutto estraneo agli ambienti letterari.

E qui si giunge all’altro motivo – il più determinante – della fortuna di Bordonaro: l’avere inventato una lingua che, nella contaminazione dell’alquanto incerto italiano col dialetto e con americanismi acquisiti nella comunità del New Jersey, ha una ricchezza comunicativa straordinaria rinsaldata da inconsapevoli, innate tecniche narrative. Non è un caso che studiosi di linguistica abbiano approfondito i segreti lessicali de La spartenza e che i giurati del Premio Pieve Santo Stefano dubitarono che quel diario fosse frutto di uno scrittore naif e non invece la creazione di un sapiente letterato (un po’ come Capuana con Gli americani di Ràbbato) che si fingeva un autore “selvaggio”.

È stato notato ad esempio (Nicola Grato) che lo stile di scrittura di Bordonaro ha una andatura ascendente: si parte da toni dimessi per giungere, attraverso una naturale progressione, agli acuti, per poi chiudere con tonalità basse. Similmente la Ginsburg osservò nella prefazione all’edizione einaudiana che la scrittura di Bordonaro ha un alcunché di roccioso: leggendo il suo testo si ha la sensazione di avventurarsi in «un sentiero di montagna che sale e scende in mezzo alle pietre».

In realtà, a mio avviso, tale struttura ascendente rivela l’accentuata affinità della sua scrittura con l’arte del “cuntu”. Il suo modo di raccontare richiama la tecnica dei cantastorie, che alternano il parlato al cantato e che modulano la voce in alti e bassi a seconda dell’intensità emotiva, del pathos degli accadimenti. In questo senso assai felice è l’aver definito La spartenza un «sorprendente impasto lessicale e fonetico».

Disseminate tra le pagine de La spartenza vi sono espressioni che sbalordiscono per genialità inventiva, parole rafforzate nella “storpiatura” sì da assumere una duplicità di significato. Così, per esempio, quando si parla della spagnola che infestava la popolazione di Bolognetta, Bordonaro scrive: «La genti moriva accatastrofi», con quell’ «accatastrofi» che congiunge, doppiandone il senso, “a cataste” e “catastrofe”; oppure, quando si svela l’imbroglio della condizione della sua amata, Bordonaro scrive: «L’orrore era stata della sua mamma che non era stata sincera»: si tratta di un “errore”, ma anche di un “orrore”, di un fatto disdicevole che ha causato mali.

Il testo comprende inoltre locuzioni intrise di liricità. Queste si trovano soprattutto quando Bordonaro racconta la storia d’amore vissuta con Rosa, conosciuta quando aveva 14 anni, sposata dopo la classica “fuitina”, morta a seguito di un aborto. L’accento lirico si svela nella descrizione dell’innamoramento. Bastano poche pennellate per rappresentare, con densità emotiva crescente, il mistero dell’amore che nasce: Bordonaro, dopo aver fatto cenno alla famiglia di lei e al rapporto, legato al lavoro, con la propria famiglia scrive: «Essendo accontatto sempre noi due famiglie questo viene per naturale, io e la figlia di 14 anni siamo iniziato a fare l’amore». Questa frase, nell’apparente semplicità, ha una efficacia comunicativa non comune: accontatto tutto unito rende la vicinanza come meglio non si potrebbe e questo viene per naturale dà il senso della spontaneità dell’attrazione, innanzitutto fisica, dei due amanti. Subito dopo Bordonaro manifesta l’evolversi fulmineo dell’unione: «Più crescevamo più forte l’amore si attaccava». Proviamo a staccare (come avrebbe fatto Stefano Vilardo che, come ricordato, in Tutti dicono Germania Germania tradusse in versi le confessioni degli emigrati) «più crescevamo» dal resto della frase e ci ritroviamo l’endecasillabo «più forte l’amore si attaccava»: si ha la sensazione che Bordonaro, il contadino semianalfabeta, si sia abbeverato dagli Stilnovisti. Ciò risalta ancor di più nella dichiarazione della sua donna: «Solo so che sono sola al mondo», altro endecasillabo che, con le sue assonanze cariche di tristezza, sembra un verso di Guido Cavalcanti.

D’altra parte Rosa, come un’Angelica del ciclo carolingio dei cunti e dell’opra dei pupi, si esprime con frasi icastiche, pervase di solenne liricità. Quando Masinu la interroga per sincerarsi che non ama altri, Rosa risponde: «Il mio cuore ne ha amato solo uno cuore, non vuole amarni altro», e quando le chiede che cosa farebbe se lui non la sposasse sentenzia con una metafora: «Una sola è la mia decisione. Il cielo mi scagliò e la terra mi riparò: sono sola al mondo, troverò qualche convento, mi farò monaca». L’inizio dell’odissea di Rosa, di quel malessere provocato da un aborto infausto che la condurrà alla morte – odissea raccontata con ritmi incalzanti e nervosi tipici dello stile “ascendente” di Bordonaro – è scandito dall’endecasillabo «ci ho il sangue addosso e mi sento male». Nella prosa altalenante di Bordonaro, che alterna timbri passionali a momenti meramente descrittivi, si scoprono passi poetici ed espressioni che, isolate dal contesto narrativo, sono di per sé dei versi. Uno per tutti, forse il più intenso, è «straziande è stata la spartenza», un vero e proprio verso dalla cadenza metrica sofferta per il ripetersi all’inizio delle parole della esse privativa o avversativa e comunque gravida di asprezza.

Bordonaro, seppure naif, conosce l’arte di raccontare e della seduzione del lettore, cioè, in senso etimologico, del condurlo a sé, del catturarne l’interesse. Raccontare la propria vita, d’altra parte, non è affatto facile. Quando si scrive una biografia il rischio è che l’enfasi prevalga, l’ego si amplifichi travolgendo e ignorando il lettore. Ma ciò non accade in Bordonaro, che è uno scrittore “educato” (la sua è l’educazione della civiltà contadina): sa essere sempre sobrio e misurato, si potrebbe dire che conosca l’aurea mediocritas oraziana. Riesce a smorzare i toni, ad abbassarli dopo le impennate emotive anche quando narra gli avvenimenti più tragici (la morte di Rosa, quella – per un incidente di lavoro – del figlio), o quando esprime la meraviglia della scoperta del “Nuovo Mondo” (l’arrivo in America, i festeggiamenti, il calore della comunità italiana sono descritti come in una sceneggiatura cinematografica). Questa “educazione” si svela nell’incipit: «Io sono Tommaso Bordonaro. Sono nato il 4 luglio 1909 in un piccolo paesetto della Sicilia Italia, Bolognetta, nella provincia di Palermo», e nell’epilogo dove, dopo aver tirato un consuntivo della sua vita «un po’ male un po’ bene», apposto firma e data, ringrazia i lettori: «Grazie per avere ascoltato la mia storia». Si badi «ascoltato» e non letto, come se u zu Masinu fosse consapevole dell’oralità della sua scrittura.

 

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