“Convertitevi!”. Intervista a Nino Barraco, giornalista e scrittore

 

Diamo oggi spazio a Nino Barraco, giornalista e scrittore, autore di diverse pubblicazioni, che commenta con la sua riconosciuta libertà la Lettera dei Vescovi di Sicilia per i 25 anni dell’intervento di San Giovanni Paolo II nella Valle dei templi.

 

Innanzitutto, come ricorda quel giorno? Dov’era, e che percezione ha avuto di quelle parole?

Ho letto un bel titolo su “Avvenire”. Diceva così: “Lo stesso grido: Mafiosi convertitevi!”. Sì, quel grido, fortissimo, il grido profetico di Papa Giovanni Paolo II, riproposto, nel venticinquesimo dell’evento, dai Vescovi di Sicilia. Quel grido e questa Lettera. Non banale, celebrativo, galateo di ricordo, ma riassunzione, provocazione di un tema, la mafia, di cui la Chiesa non può non sentirsi interpellata. Una Chiesa che sfida la verità, che annunzia, che costruisce la speranza dell’uomo, che diventa la vertenza della storia. Lo stesso Papa, Giovanni Paolo II, parlando in piazza Politeama, a Palermo, affidava ai giovani “un futuro ed una società nuovi in cui non abbia più posto ogni ramificazione mafiosa”. Importantissimo tutto questo, e però, sommessamente, vorrei aggiungere, attenzione a non fare letteratura...

Che vuol dire letteratura? Che, cioè, le parole restino da citare, parole da antologia, senza riscontri di concretezza, di veridicità, di progetto?

Sì, è il rischio che corriamo. Ritrovarci, il giorno dopo, a fare convegni, dibattiti, sui documenti, e, poi, immediatamente dopo, dimenticare tutto. Ci fu quella sfida dei Vescovi: “Finché non sorga come stella la sua giustizia”. Ci furono le conclusioni di quel primo Convegno delle Chiese di Sicilia: “Scegliere gli ultimi vuol dire riscoprire in loro i soggetti privilegiati della presenza ecclesiale”. C’è stata quella riflessione, sempre dell’Episcopato siciliano: “Amate la giustizia voi che governate la terra”. Mi domando, ogni parola che diciamo in più, che aggiunge?

Vuol dire, in sostanza, che le cose stanno così come sono state sempre, e che le parole non incidono sul terreno sociale, economico, culturale, religioso, di questo tempo?

Per carità, non voglio dire questo. Voglio dire solo che di ogni parola bisognerebbe fare una meditazione perpetua. Sono tante, oggi, le comunità coinvolte nella quotidianità della fatica, della speranza, dell’impegno. Realtà sociali, culturali, religiose, “in uscita”, come insiste papa Francesco. Una uscita “per servire”, che vuol dire lotta, condivisione del dolore, impegno di fare “sogno” nel concreto, sulla strada, nelle prospettive coinvolgenti della storia. Che vuol dire alzare la mira, spostare i confini dei nostri piccoli episodi, avere occhi grandi, da vivere il presente, l’ordinario, e, però, essere capaci di pensare, di gestire un progetto, un disegno più ampio per il domani.

Nel documento dei Vescovi si dice che bisogna “mettere il popolo credente nelle condizioni di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi” e come esempio si citano l’omicidio del giudice Rosario Livatino e del beato Pino Puglisi. Fare memoria di queste o di altre persone uccise come aiuta a tenere vivo un atteggiamento costante e diffuso di lotta alla mafia?

Ho paura di rispondere. Sì, ho paura. Sarebbe davvero un rischio fatale se l’assassinio di don Pino Puglisi si risolvesse in un trofeo dell’antimafia, se andasse a costituire, cioè, il “posto” che la Chiesa si è guadagnato, una sorta di lasciapassare per i cortei dell’antimafia. No, no! Paradossalmente, dico che don Pino Puglisi sarebbe bene “estraniarlo” dai discorsi di antimafia. Non è il trofeo dell’antimafia. È icona di Vangelo, è altare, è strada, è martirio. Una icona speciale, di sangue, in cui ritrovare tutte le altre icone di martirio che restano senza nome. No, il venticinquesimo dell’uccisione di don Pino Puglisi non può essere lo “spettacolo” del prete ucciso. Nel suo nome è il martirio quotidiano di tutta la Chiesa, preti, suore, giovani, anziani, famiglie intere... che conoscono la morte e, accanto a noi, nel mondo, giurano contro ogni speranza. Puglisi non è il fiore solitario delle Alpi, nel suo nome sono tutti i martiri di ogni giorno.

È stato l’Arcivescovo di Palermo a dire che la Chiesa non si sta apprestando a vivere uno “spettacolo”. E allora?

Il Vescovo Corrado, certamente. Il Vescovo che, parlando ai candidati sindaci, e accennando a Palermo “insieme di città”, e, quindi, alle “tre navi di Palermo”, ha ammonito: “I governanti abbiano la passione per gli ultimi”. È necessario estendere quel grido del Papa alla politica, farne il grido di tutti coloro che soffrono, che agonizzano, che muoiono. Chi salva gli ultimi dal vuoto, dall’irrilevanza, dalla prepotenza, dai monopoli, dal mercato dei potenti, dei furbi, dei predoni, degli affaristi? La mafia uccide, e la Chiesa non può accontentarsi di scomunicare la mafia. Il suo grido ha più spazialità. Il bene di un Paese non è soltanto estirpare le radici delle mafie, è volere il bene. Volere tutto il bene della città terrena. E qui... posso dirlo? sembra, talvolta, che i dibattiti che si fanno sulla mafia, sul fascismo, sull’emigrazione – per carità, fondamentali, essenziali – sembra che siano scelti, talvolta, come “dispersivo”, per “deviare” dalla realtà dei problemi che assillano, invece, concretamente la gente. C’è sempre un modo per ingannare il fine. Così – lo dico tra parentesi – l’insurrezione verginale, scandalistica, di qualche prelato contro il Papa. Come dare torto a chi vede, in questa vicenda, la rivolta, lo scontro di un potere di Chiesa che non riesce a tollerare la povertà e la misericordia di Francesco?

Un Papa fra i lupi, una verità che non ci sconcerta, ma che, anzi, conferma il significato profetico di un Vangelo destinato ad essere sfida. Non è così?

Sfida, grido che non può essere celebrato nelle cappelle dell’antimafia, ma che è “altro”. Una visione della vita, la profezia di Abele che Dio ha affidato al mondo per un mondo nuovo. Finanzieri, appalti, peculati, truffe, abbracci perversi, mortali, tra favori privati e soldi pubblici, una logica diffusa e trasversale di mafia e politica. Il paese urla e la politica è come se perdesse il tempo. Corrompe, si consuma. Ecco, quel grido del Papa, raccolto ancora oggi dai Vescovi di Sicilia, profetizza il grido disatteso dei poveri, il grido di una Chiesa povera, disarmata, che chiede umanità e futuro per la globalità del mondo. Una Chiesa che non può accettare il mondo come è. Ricordo alcuni titoli, “Chiesa italiana e Mezzogiorno”, ancora “Il Vangelo della carità per una nuova società in Italia”. Sono titoli dimenticati? Ancora, “Con il dono della carità dentro la storia”, tutto un magistero addentellato con la realtà sociale, culturale, politica. Vicinissimo a noi, uno studio di Massimo Naro, della Facoltà teologica di Sicilia, “Contro i ladri di speranza”, che conclude con il dovere di una “resistenza cristiana”. Potere e ricchezza, la conclusione, le due finalità della mafia. Resistere non è soltanto gridare contro le mafie, è volere il giorno dei poveri, dei deboli, di una politica che non sia potere e denaro.

Vale, qui, tra i titoli, ricordare i tempi di piombo del Cardinale Pappalardo, e vale domandarsi che cosa dirà Papa Francesco a Palermo.

Il Cardinale Pappalardo? Il Vescovo che decise il futuro della città, che pose la Chiesa in conflitto con il crimine, che diede speranza al dolore degli abbandoni, che volle la frequentazione della bellezza come presagio di Vangelo. Ho, proprio qui, una Raccolta delle sue omelie, curata da Francesco Michele Stabile. Ecco, Cattedrale 22 novembre 1981: “C’è un macchinoso intreccio praticamente inestricabile tra delinquenza comune che agisce allo scoperto ed occulti manovratori di loschi affari che operano sotto abili coperture e protezioni, tra i manovali del delitto e i mandanti di esso... tra prepotenti di rione o di borgata e mafiosi di più vasto raggio e dominio, grandi operatori di illeciti manipolazioni e speculazioni nel mondo degli affari e di attività redditizie nei settori del contrabbando, della droga, della prostituzione”.

Parole lucidissime, forti, precorritrici della storia. E precorritore è tutto il Vangelo “secondo” Papa Francesco.

Per quanto riguarda papa Francesco, non so quello che Egli dirà sulla mafia. Come potrei? Ne ha già detto in diverse circostanze. Mi basta, ed è tutto, il suo essere, il suo volere una Chiesa nuova, vestita di nudità e di povertà. Mi bastano le parole di protesta “contro” il mondo, che accusa le mafie, i poteri forti, l’ingiustizia, le lobby, le strutture di peccato, “il crimine del mondo che rende schiavi le donne, i bambini, i poveri dei continenti”. Una protesta che è anche “contro” la Chiesa, che non esita a denunziare “il dilagare del male dentro la Chiesa stessa”. 

La Lettera dei Vescovi ha citato opportunamente il giudice Rosario Livatino, il giudice “fanciullo”, che ha dato la vita per la giustizia.

Non è cortigianeria, clericalismo, ripeterlo. Ha un merito grandissimo questa Lettera dei Vescovi. In essa non c’è la mera rievocazione del “grido” del Papa. C’è il timbro profetico di quel grido, c’è – interessatissimo – l’esperienza ecclesiale sviluppatasi dal quel grido. C’è la memoria di quel “sorriso” di don Pino Puglisi, di cui ha scritto il Postulatore Bertolone. C’è, sì, il riferimento al giudice Livatino. E come non riconoscere il sogno, la capacità di sognare la giustizia, che fu di Livatino? Bisogna volere oltre. È la politica che va interpretata. Quando ci sarà il “sogno” della politica? Penso a Giorgio La Pira, nostro, siciliano. Giorgio La Pira, il sognatore che scommette sull’impossibile. L’uomo dell’utopia evangelica, che convoca a Firenze i Convegni della Pace, quando tutto intorno era la guerra dei blocchi. Che va in Vietnam, che, di ritorno dalla Russia, conferma: “Cadranno le mura di Gerico”. Il sindaco di Firenze che, al Consiglio Comunale, non esita ad opporre alla regola dei bilanci la giustizia dei poveri. Che mette lo scompiglio nella storia dei cristiani in politica: “Quando sarò giudicato, non potrò dire: Signore, non sono intervenuto per non turbare il libero gioco delle forze di cui si avvale il sistema economico... Signore, per non violare le leggi della circolazione monetaria, ho lasciato nella fame alcuni milioni di persone...”. 

Ci siamo dette tante cose. Alla fine, che cosa ci si aspetta dal Papa che viene a Palermo, quale il senso di questa Visita che coinvolge anche l’accoglienza della città, del sindaco, delle autorità?

Il sindaco, Leoluca Orlando, la città di Palermo, la città “capitale della cultura”, un valore aggiunto. Io direi, non siamo noi ad aspettarci qualcosa dal Papa. Piuttosto, mi domanderei: che cosa si aspetta lo Spirito da tutti noi? Si aspetta che la Chiesa si “converta” ogni giorno al Vangelo, che annunci l’inconcepibilità di un Dio fatto uomo, che definisca la sua fede nel servizio della povera gente. Che abbia la passione dei fratelli, così come ha scritto il Vescovo Corrado nell’attesa del Papa. Leggo, sono parole sue, parole da scrivere su tutte le mure dell’indifferenza, del rifiuto, da gridare nelle sacrestie della nostra coscienza: “Una Chiesa ‘nunzia’, ‘prossima’, ‘povera’, che beva fino in fondo il calice della vita ordinaria e del tempo feriale, dentro le tante emergenze sociali del nostro territorio, lì dove il volto umano è rigato dal dolore e sfigurato dal peccato, lì dove abitano i vinti e gli scartati della Terra, dove stanno le vittime delle ingiustizie umane e dei poteri carsici e mafiosi”.

 

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