“Convertitevi!”. Intervista a Giuseppe Notarstefano, vicepresidente nazionale dell’AC

 

Pubblichiamo oggi l’intervista sulla Lettera dei Vescovi di Sicilia per i 25 anni dell’intervento di San Giovanni Paolo II nella Valle dei templi, che ci è stata rilasciata da Giuseppe Notarstefano, docente alla Università Lumsa di Palermo e Vicepresidente nazionale dell’Azione Cattolica.

Dov’era quel giorno, e che cosa ricorda?

Ho una memoria molto nitida di quel giorno: mi trovavo a Milano dove vivevo per motivi di studio e ho visto tutta la celebrazione in diretta televisiva insieme ad alcuni compagni di università, tutti del Sud… abbiamo avuto un sussulto per quel monito vibrante, abbiamo avuto subito la percezione che quel passaggio del Papa avrebbe segnato per sempre i rapporti tra Chiesa e società siciliana. Eravamo entusiasti…avevamo vissuto con sgomento il periodo delle stragi e la spirale di violenza che ne era derivata, era anche la stagione di “Tangentopoli” che aveva istillato in molti coetanei una sfiducia generalizzata verso le istituzioni. Giovanni Paolo II in quel suo appello ad Agrigento ha acceso una Speranza, ricordandoci che la Chiesa è sempre a fianco degli oppressi e dei più deboli.

Poi sono venuti gli anni difficili. Quella denuncia come ha influenzato la società siciliana nei 25 anni successivi?

Quella del Papa non è stata solo una denuncia, ma un richiamo, autorevole e severo, alla conversione. Un invito non tanto a “pentirsi” – nel senso inteso dalla procedura penale – ma a cambiare vita, ad intraprendere una strada diversa, nuova… quella del rispetto del fratello. Mi piace pensare che il suo monito abbia innescato molti processi a livello personale e sociale, molti dolorosi, ma ricchi di frutto. La società siciliana è stata scossa, ma ha fatto fatica ad accogliere quel monito nella sua essenza o, forse, lo ha affatto in modo superficiale. Il Papa ci ha esortati a scegliere una cultura diversa, la civiltà dell’amore, fondata sul rispetto del fratello e del prossimo. In questi anni abbiamo certo visto ridursi i fenomeni di violenza stragista, ma è cresciuta la diffusione della corruzione e dell’illegalità diffusa, di affermazione violenta dei prepotenti sui miti e sui deboli, forme attraverso cui il dominio mafioso conquista spazi nella società siciliana e nelle sue istituzioni. Ma è pur vero che quel passaggio ha segnato, così come la stagione dolorosa degli attentati, un cambiamento di passo e un risveglio molto forte che non sempre si è condensato in autentico rinnovamento delle istituzioni e della vita sociale.

Quali aspetti dell’intervento di San Giovanni Paoli II e della Lettera dei Vescovi l’hanno colpita maggiormente, in riferimento all’attuale situazione?

Ho percepito subito la fermezza, rigorosa e paterna ad un tempo, a condannare la mafia come organizzazione che manca di rispetto alla vita e ancora di più l’invito alla conversione, al cambiamento del cuore come dicevo in precedenza. Del resto anche i Vescovi siciliani hanno voluto dare questo titolo a questo straordinario documento “Convertitevi!” per sottolineare la prospettiva pastorale e suggerire la prospettiva corretta di un’azione educativa e sociale. La mafia è “un’anemia spirituale” e tutti i mafiosi sono peccatori, così come “peccato più grave è la mentalità mafiosa”: la mafia è “incompatibile con il Vangelo”. Si tratta di espressioni nette, chiare e decise che chiedono di essere assunte nella loro integralità dal popolo cristiano in primo luogo.

C’è un passo che l’ha colpito più degli altri?

Devo dire che ho particolarmente apprezzato il paragrafo terzo della lettera e in particolare il punto 3.1 dove si sottolinea l’importanza e, persino l’urgenza, di rompere il silenzio a “parole nostre”. Le regioni della denuncia sono sempre anticipate dall’urgenza dell’annuncio. Il Vangelo è per la conversione del cuore di tutti, persino dei mafiosi. L’invito è a porre in essere coraggiose e pervasive azioni educative che incoraggino persone e comunità a testimoniare il Vangelo nella concretezza della vita di tutti i giorni. Ritengo molto preziosa questa sottolineatura di come il Vangelo abbia un “ineludibile contenuto sociale” per citare papa Francesco e che la coerenza evangelica negli stili di vita si trasforma immediatamente in Bene Comune, un contributo autentico dei credenti alla vita civile. Per questo non si può essere mafiosi o “concedere” spazi del nostro agire o del nostro pensare alla “mentalità mafiosa”. In tal senso si ricomprende il senso della scomunica ai mafiosi, come affermazione del primato della comunità e della vita comunitaria che chiede un’adesione profonda e radicata.

Parliamo ora dei reali o presunti ritardi con cui la Chiesa siciliana ha affrontato questa piaga. Pensa che ci siano stati e abbiamo inciso così pesantemente?

Ritengo che, mentre ci sia stata una capacità di condivisione delle sofferenze e delle lacerazioni che la mafia ha causato al popolo siciliano, ci sia stata invece una lentezza talvolta reticente a porre azioni educative. Tale lentezza è anche condizionata ad un modo di pensare la pastorale spesso in maniera disincarnata, rituale e intimista. Mentre numerose sono state le prese di posizione del magistero, ma anche della elaborazione teologica in questi anni – come non dimenticare tutto il magistero di Cataldo Naro, pastore che ha sofferto nella sua carne la persecuzione subdola e violenta della mafia e della sua rete di coperture e connivenze - non altrettante sono state le iniziative pastorali alimentate da uno schietto e coraggioso discernimento sulle questioni vere che rallentano ed ostacolano il progredire dell’Annuncio del Vangelo nella nostra terra.

I Vescovi siciliani lanciano un accorato appello alla necessità di un’azione educativa per combattere la mafia. Che difficoltà incontra nel suo impegno professionale a contatto con i giovani e che percezione hanno i suoi allievi dell’impegno della Chiesa in tal senso?

La mia sensazione è che il lavoro educativo che la Chiesa – come comunità tutta ognuno nella sua responsabilità (genitori, sacerdoti e religiosi, catechisti ed educatori…) - è enorme e chiede molta pazienza e dedizione. C’è ancora molto fervore diffuso tra i giovani, ma spesso si esprime come bisogno di astrazione e di “purificazione” della complessità della vita, piuttosto che come capacità di discernimento e di ingresso in profondità in essa. Occorre ripensare tutti i luoghi ecclesiali secondo le categorie dell’accompagnamento spirituale e vocazionale e del discernimento comunitario. In tal senso il Sinodo dei giovani costituisce una grande possibilità per noi tutti.

Nel documento dei Vescovi si dice che bisogna: “mettere il popolo credente nelle condizioni di discernere tra fatti di cronaca e segni dei tempi” e come esempio si citano l’omicidio del giudice Rosario Livatino e del Beato Pino Puglisi. Fare memoria di queste o di altre persone uccise come aiuta a tenere vivo un atteggiamento costante e diffuso di lotta alla mafia?

Certamente si. Fare memoria e non solo ricordarne o celebrarne la figura storica. Fare memoria vuol dire interrogarsi su come sia possibile oggi attualizzare la testimonianza di tali grandiose figure di santi che, però se ci riflettiamo bene. sono tali perché hanno preso sul serio la quotidianità e la misura feriale e concreta della vita cristiana. I loro gesti di coerenza al Vangelo e adesione al Signore della vita e della storia sono apparsi ancora più eloquenti perché stridenti con un contesto, e spesso con una comunità, tiepide e indifferenti prima che avverse o contrastanti.

I movimenti ecclesiali laicali sono un importante avamposto di contrasto alla mafia per la presenza che hanno in tutti gli ambiti della società civile. Nella sua esperienza, anche in qualità di vice presidente nazionale dell’Azione Cattolica, vede in essi esperienze o segnali di reale contrasto?

Devo riconoscere che, anche girando l’Italia soprattutto nel Sud, ma non solo, vedo un grande impegno diffuso che si caratterizza per un bisogno di restituire concretezza all’azione pastorale che s’intreccia sempre più con quella civile e sociale cercandone una sintesi, sia con l’impegno a coltivare una spiritualità più profonda e radicale. Nella nostra associazione si sono moltiplicate in questi anni le iniziative formative che hanno messo a tema l’impegno per la giustizia, così come vedo diffondersi l’attenzione verso le figure di don Pino Puglisi e Rosario Livatino, spesso scelti come testimoni dei gruppi parrocchiali e locali. Ma penso anche all’impegno di tanti amministratori locali provenienti dalle fila dell’associazione che hanno coraggiosamente testimoniato tale impegno contro criminalità e corruzione, sino spesso a pagarne di persona, subendo intimidazioni o attentati, per grazia di Dio, non mortali. Così come anche l’impegno profuso in cooperative sociali, spesso a sostegno del Progetto Policoro e di Libera, per diffondere una cultura economica ispirata dalla giustizia sociale e rispettosa delle leggi e delle regole del vivere civile.

Perché si fa ancora tanta fatica a capire che Chiesa e mafia sono incompatibili?

Penso perché facciamo fatica a capire che il Vangelo e la Fede sono per la vita, la nostra è una fede incarnata e non una religione… è una grande questione pastorale ed educativa, dicono bene i nostri Vescovi!

Nella lettera si fa riferimento anche alla pietà popolare e si dice: Dobbiamo tornare a preoccuparci e a occuparci della pietà popolare, interpretandola non solo fatto sociale ormai anacronistico, bensì come fatto interno alla vita della comunità ecclesiale. Come giudica queste parole alla luce della sua esperienza?

È un tema molto interessante su cui anche come AC ci stiamo interrogando, sulla scia dell’invito di papa Francesco a “popolarizzarci”, ossia a vivere ancora di più la dimensione popolare dell’annuncio. Ricorda il nostro assistente generale Mons. Gualtiero Sigismondi che la pietà popolare è il “sistema immunitario della Chiesa”, non possiamo farne a meno e ci aiuta a stare attaccati alla concretezza della vita delle persone, Certo va purificata, resa più trasparente, connessa maggiormente con la liturgia della Chiesa e aperta sempre ai gesti di condivisione con gli ultimi e con i poveri. Non è anacronistica. anzi, vedo molti giovani attratti dalle tradizioni, ma occorre che ci sia una “tradizione” attenta a promuovere il significato autentico della fede, altrimenti la strumentalizzazione è immediata e facile, ed in questo si insinua il potere criminale e mafioso che piega tali forme per celebrarsi e celebrare la propria oppressione sulle persone invece di annunciare la liberazione di tutti che risuona nel messaggio di Cristo.

 

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