“Di fronte alla crisi di tanti matrimoni, accompagniamo le coppie che vogliono sposarsi in un percorso che continui anche dopo il matrimonio”. Lo dice Giuseppe Re responsabile diocesano per la pastorale delle famiglie

 

L’inaugurazione dell’Anno Giudiziario del Tribunale Ecclesiastico ha messo in luce la crisi che attraversano molti matrimoni celebrati in chiesa. Non basta allora un semplice corso prematrimoniale, ma bisogna accompagnare le coppie per introdurle alla vita comunitaria cristiana.

È stato inaugurato nei giorni scorsi l’Anno Giudiziario del Tribunale ecclesiastico interdiocesano siculo, il quale ha tra l’altro il compito di decidere delle cause di nullità dei matrimoni religiosi. In occasione dalla relazione del vicario giudiziale, monsignor Antonino Legname, è emerso un quadro dell’intera problematica alquanto preoccupante che alcuni dati sintetizzano bene.

Confrontando i capi di nullità nelle cause introdotte nell’anno 2018 emerge innanzitutto l’esclusione dell’indissolubilità del vincolo; ciò vuol dire tanti che giovani non si sposano con la volontà di celebrare un matrimonio indissolubile e per tutta la vita. Al secondo posto si colloca il capo dell’esclusione della prole e poi l’evidenza che molti si sposano senza essere consapevoli degli impegni che assumono con il matrimonio. Sono, infatti, in forte aumento le richieste di nullità per problemi di natura psichica o psichiatrica. Tutto ciò porta anche ad una riflessione sul come si preparano queste coppie al matrimonio e sulla efficacia che hanno i c. d. corsi prematrimoniali.

Ne abbiamo parlato con Giuseppe Re, il responsabile della pastorale familiare della diocesi di Palermo.

Dobbiamo premettere – esordisce – che il quadro descritto non riguarda l’intera società, ma quello spaccato che più interessa noi in quanto ne siamo maggiormente responsabili; mi riferisco alle coppie cristiane che decidono di sposarsi in chiesa e quindi di celebrare il sacramento del matrimonio. La tendenza a contrarre il matrimonio concordatario, al di là delle molteplici e talvolta superficiali motivazioni, tende ad aumentare.

Rimane il fatto che le coppie che si rivolgono al Tribunale per annullare il vincolo aumentano. Qual è la causa, cosa chiedono secondo lei?

Per il tribunale ecclesiastico le cause maggiori per la richiesta di nullità riguardano il rifiuto dell’indissolubilità e della prole. Più che il numero a me ha colpito l’elencazione delle cause. Ma per fermarci ai numeri credo, che chi chiede l’annullamento del vincolo lo fa perché presumibilmente vuole contrarre un altro matrimonio Sacramento o per conoscere la verità sul proprio matrimonio. Altrimenti si accontenterebbe di un divorzio civile, di una convivenza o anche a limite a fare una vita da singol.

Ma torniamo all’elenco delle cause. Che giudizio se ne può trarre?

Concordo sulla preoccupazione di mons. Legname e ciò che più mi colpisce nella sua elencazione è quella che pone al terzo posto, cioè la scarsa consapevolezza di ciò che si chiede e di ciò che si fa, che poi apre alle richieste di nullità anche per problemi di natura psichica o psichiatrica.

Perché?

Perché in fondo le prime due (rifiuto dell’indissolubilità e della prole) ci sono sempre state e sono sempre più facilmente evidenziabili e individuabili. Lo stesso Papa Francesco considera queste cause inerenti alla formazione delle persone oggi sempre più incapaci di scelte definitive sia per le relazioni sia per l’apertura alla vita. La terza causa apre inesorabilmente al tema della consapevolezza della scelta e quindi introduce quello della preparazione e quindi dei corsi prematrimoniali.

In che senso?

In passato la scelta di sposarsi in chiesa era frutto del clima culturale e familiare in cui le coppie vivevano e quindi il corso serviva ad approfondirne le ragioni e a dare qualche elemento di conoscenza che non avevano.

A cosa si riferisce?

Per esempio alle lezioni sul diritto di famiglia o sui metodi naturali. Oggi chi partecipa ai corsi ha una competenza maggiore degli stessi parroci. E poi non dimentichiamo che molti vi giungono dopo anni di convivenza o con una esperienza consolidata sulla contraccezione.

E allora, che fare?

Innanzitutto distinguere o meglio coniugare la preparazione sacramentale, che è quella che oggi si fa normalmente nei corsi, dalla preparazione alla vita matrimoniale. Infatti, la terza difficoltà che indica mons. Legname evidenzia proprio questa incapacità della coppia a reggere il rapporto innanzitutto coniugale e poi sociale.

Ma la Chiesa deve farsi carico anche di questa difficoltà, che per altro riguarda tutte le coppie (laiche e cattoliche), o deve limitarsi ad una buona preparazione sacramentale?

La Chiesa deve farsi carico anche di questo. Perché ciò che conta è la formazione dell’interezza della persona e la sua educazione cristiana, che è poi anche civile e sociale.

Può essere ancora più chiaro?

Certo. Tutte quelle virtù che indichiamo con ‘il sacrificio di sé stesso’, ‘la capacità di ascoltare’, ‘la capacità di mettersi a servizio dell’altro’, sono virtù che non sono soltanto umane, ma sono anche cristiane e fanno parte del bagaglio necessario per fare un buon matrimonio. Ecco perché privare le coppie di una adeguata formazione su queste problematiche genera i problemi di cui abbiamo detto. Ma devono essere considerate come virtù che ti fanno adempiere ad una scelta cristiana consapevole. È quello che significa Amare non come sentimento ma come scelta di donazione, servizio unicità della relazione. Inoltre, spesso quando una coppia o famiglia viene in parrocchia sia esso matrimonio, battesimo, prima comunione o cresima, che non ha i soldi per una festicciola, la comunità si fa carico anche di questa, sempre per testimoniare l’appartenenza e la vicinanza della comunità cristiana che non si limita alla amministrazione del solo sacramento?

Ma questa visione apre inesorabilmente al tema della riformulazione dei corsi pre matrimoniali? Quello di cui parla non si può certo fare in 10 incontri serali distribuiti nell’arco di alcuni mesi?

Certamente sì, ed è giunto il momento di parlarne e di affrontare il problema.

Ma la sua idea presuppone che il corso abbia una durata certamente più lunga e quindi diventi molto più impegnativo. O no?

No, in una logica rigida. Mi spiego. Quando i due decidono che ci sono le condizioni affettive ed economiche per sposarsi si mettono in moto per prendere due decisioni: la chiesa in cui celebrare il rito e il locale ove consumare il pranzo o la cena. Questo avviene almeno un anno se non anche di più di un anno prima. Si potrebbe a questo punto chiedere di iniziare un percorso di preparazione di un anno circa in cui oltre agli incontri previsti si potrebbe partecipare a momenti diversi per contenuti e finalità da svolgere nei mesi successivi ovviamente con ritmi meno serrati.

E più in dettaglio?

Partiamo da quello che già si fa. Spesso si chiede alle coppie che frequentano il corso di partecipare a gesti che la comunità parrocchiale compie durante l’anno; per esempio un gesto di carità o condivisione del bisogno oppure una conferenza su temi specifici, ecc. Si potrebbe rendere questi momenti parte integrante del corso. Se ne potrebbero aggiungere alcuni per partecipare ai momenti liturgici più importanti dell’anno: preparazione al Natale o alla Pasqua. Non dimentichiamo che soprattutto i più giovani non provengono da alcuna esperienza ecclesiale e talvolta l’ultima volta che hanno avuto rapporti con la parrocchia è stata per la prima Comunione o per la Cresima che talvolta devono ancora fare.

Ma così il corso diventa annuale? Non le sembra troppo?

Forse troppo poco? Comunque, si tratterebbe di accompagnare queste coppie nel corso dell’anno più importante e decisivo della loro vita. Ci potrebbe essere il tempo anche per parlare di più e meglio di altre scelte conseguenti: la casa, il lavoro, la festa ecc. Tutte cose che non si possono affrontare in coda ad un incontro che è sempre molto soggetto alla fretta.

Lei ha usato una parola molto cara a papa Francesco: accompagnare. Che vuol dire in questo contesto?

In genere la si utilizza in modo restrittivo indicando i casi di difficoltà e di crisi, che attraversano le coppie. Bisogna invece partire dal positivo, dalla normalità. Aggiungo un altro elemento. Queste coppie non avendo una esperienza ecclesiale alle spalle, dopo il corso piombano nuovamente nella solitudine ecclesiale. Torneranno in parrocchia probabilmente nel momento del battesimo del primogenito. Bisogna invece offrire loro una compagnia da subito, una comunità parrocchiale, tutta, non solo quella costituita dagli operatori addetti ai corsi, in grado di fare compagnia da subito. Compagnia può voler dire talvolta prendere una pizza o andare a mare insieme, proporre gli Esercizi spirituali o la Via Crucis: insomma una proposta integrale per la persona.

Ma tutto questa deve coinvolgere anche la Diocesi e il Vescovo.

Certamente, ne abbiamo già parlato e ne continueremo a parlare. Ma non cadiamo nell’errore dei piani pastorali pensati a tavolino. Deve essere la singola comunità parrocchiale a farsi carico interamente del problema, secondo le disponibilità di persone, spazi e tempi di cui dispone. E in base tutto ciò fare una proposta volta per volta, magari utilizzando positive esperienza fatte altrove.

 

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