“Cari mostri” di Stefano Benni: l’ironia per raccontare la società che cambia


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Stefano Benni, Cari mostri, Feltrinelli, Milano 2015


 

 

Siamo circondati, accerchiati da mostri. Basta girarci intorno e ce ne accorgiamo. I mostri sono diventati familiari, fanno parte della nostra vita di relazioni, della nostra quotidianità. E non potrebbe essere diversamente in una società orientata al consumo coatto, che ha perso la sua dimensione umana, in cui la tecnologia ha prevalso sul buon senso e su quella solidarietà umana che connotava un universo ancora dominato dalla forza della partecipazione sociale. Questo è il messaggio, per certi aspetti sinistro e sinceramente accorato, che Stefano Benni ci lancia nella sua silloge di racconti Cari mostri edito da Feltrinelli.

Benni ce lo dice nel suo stile, graffiante, scoppiettante, istrionesco, con quell’umorismo e con quell’ironia, in questo caso amara, che costituiscono la cifra della sua scrittura. Sta a noi cogliere il suo grido pervaso di dolente umanità. Sta a noi comprendere che dietro quei “mostri” che ci rappresenta nei suoi venticinque racconti si celano figure e figuri che incontriamo ogni giorno nell’avventura della nostra vita senza che ci rendiamo conto della loro forza malefica, del loro diabolico profilo.

Benni ci avverte che la tecnologia ci sta surclassando e rischia di travolgerci, ed è l’ora di aprire gli occhi per difenderci.

I suoi racconti, apparentemente ispirati ai classici dell’horror, hanno poco a che vedere con la narrativa di genere. Semmai rivelano parentele con quelli allegorici e allusivi di Dino Buzzati o, sotto il profilo stilistico, con il “realismo magico” di Tommaso Landolfi, autori a cui Benni ha fatto riferimento, e che ha detto di prediligere, nel corso della presentazione di Cari mostri appena un mese fa a Palermo al teatro Biondo.

E alla Boutique del mistero del compianto Buzzati, un autore troppo presto dimenticato, paiono rimandare alcuni racconti di Benni. Come ad esempio Numeri dove il protagonista, tale Zefiro, vive la sua alienazione sino al punto dell’annichilimento e della sua rassegnata scomparsa, nello “scollegamento” da qualsiasi congegno elettronico, da quello telefonico a quello del citofono e della connessione a internet, espulso dal consorzio sociale e dalla realtà esistenziale per un capriccio dell’informatica da cui sembriamo essere dominati. O nel malinconico Verso Casa,preceduto dall’esergo borgesiano («Dureranno più del nostro oblio; non sapremo mai che ce ne siamo andati»), in cui un uomo, tornando a casa, si dissolve nella nebbia che lo avvolge sino a inghiottirlo.

Così come al realismo magico del Novecento italiano rinvia Hotel del Lago per le sue significazioni metaforiche, sapientemente intrecciate, aldilà dei suoi risvolti orrofici.

Ma Stefano Benni riesce a catturare i lettori anche con quel tocco di umorismo, sempre ancorato alla realtà dei nostri inquietanti giorni, con racconti di godibile “leggerezza” calviniana come L’ispettore Mitch, un giallo che ha come protagonista il mondo felino, o come Compagni di banco o Sonia e Sara che prendono di mira gli universi adolescenziali, per non parlare della divertentissima trascrizione della fiaba dei fratelli Grimm Hansel @ Gretel.com.

Leggendo il Benni di Cari mostri, insomma, si ride; ma è un riso che induce alla riflessione e alla commiserazione della natura umana, come nell’accezione pirandelliana dell’umorismo.

 

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