“Migranti, la sfida dell’incontro”. 21 storie di accoglienza e integrazione e tanto altro sul tema

 

 

Nato come catalogo della mostra dall’omonimo titolo presentata al Meeting per l’Amicizia tra i popoli di Rimini di quest’anno (qui l'articolo), questo volume di quasi 200 pagine (Migranti, la sfida dell’incontro, a cura di Giorgio Paolucci, prefazione di Nunzio Galantino, Itaca) si è trasformato in un importante testo di grande attualità sulla drammatica situazione delle migliaia di migranti che giungono nel nostro Paese e sulle innumerevoli storie di accoglienza e integrazione di cui è costellata tutta la nostra penisola, dal Brennero a Capo Passero.

Il corpo centrale del libro è costituito dalle vicende umane di 21 immigrati giunti, tra noi taluni da pochi mesi altri da tanti anni, che, portando sulle spalle una storia di miseria, paura e spesse volte scampato pericolo di morte, hanno incontrato qualcuno, magari un assistente volontario in qualche struttura o associazione di volontariato, con cui è riuscito a far scaturire dal viaggio un incontro, cioè un avvenimento in grado di riprendere la strada della speranza, quella che avevano iniziato prima di partire e che avevano rischiato di smarrire, malgrado il loro arrivo in Italia.

Quattro di queste storie si sono svolte in Sicilia.

La prima è quella di Pietro Bartolo, chiamato da tutti ‘U dutturi’, il responsabile del Presidio sanitario di Lampedusa, che da anni accoglie sulla banchina del porto miglia di persone per prestare loro i primi soccorsi. Tutte hanno lasciato un segno indelebile nella sua vita, ma ricorda soprattutto Omar, un giovane tunisino trovato rannicchiato per la paura sotto un barca dove si era nascosto per una settimana. Lo ha portato a casa sua per le prime cure; vi è rimasto per due anni; poi è partito per la Svezia dove vive e lavora. «Quegli suoi occhi neri non li dimentico più. Gli occhi di chi in mare ha visto la morte in faccia, ha visto la morte portar via amici, familiari, compagni di viaggio. Ma anche gli occhi pieni del desiderio di ricominciare, di provare a costruire una nuova vita».

Qualche pagina avanti è narrata la storia di Mustafà un sedicenne proveniente dalla Somalia inviato in Europa dai genitori per contribuire al sostentamento della famiglia lasciata laggiù; dopo un viaggio rischiosissimo fino alle coste libiche, sbarcato a Lampedusa da un barcone, è stato condotto nella comunità alloggio don Calabria di Termini Imerese dove ha iniziato una nuova vita, partendo proprio dallo studio e dall’amicizia. Conclude il suo racconto narrando di una vacanza fatta con questi nuovi amici e coetanei: «L’ultimo giorno, prima di salutarci, chi voleva ha potuto raccontare le sue impressioni sulla vacanza, e così ho scritto questo pensiero: Dalle mie parti si usa dire che ci sono gli amici “ciao”, gli amici “come stai?” e gli amici “andiamo”. I primi sono quelli che ti salutano soltanto, i secondi vanno un poco oltre e ti chiedono anche “come stai?”, i terzi oltre a tutte queste cose ti dicono “andiamo!”, e sono loro gli amici veri o, come diciamo in Somalia, amici grandi, che camminano al tuo fianco. Quello che mi colpisce di questa vacanza è che ho trovato tanti amici che appartengono alla terza categoria, amici che mi dicono “andiamo”».

E poi si passa alla storia di Bekir, un tunisino di 47 anni giunto a Palermo tanti anni fa per lavorare. Incappato nelle maglie della giustizia italiana ha avuto la fortuna di scontare la pena nella Missione Speranza e Carità di Biagio Conte a Palermo. Vi è rimasto otto anni, ben oltre quelli comminati dal giudice. Poi si è sposato ed ha due figli, nati e cresciuti a Palermo. «Quando mi venne proposto di scontare la pena alla Missione di fratel Biagio non sapevo nulla di lui e di quel luogo, accettai perché non volevo tornare in Tunisia avendo sulle spalle la condanna ricevuta dalla giustizia. Da subito mi colpì un fatto: io ero musulmano, ma fui accolto con generosità dai molti cristiani presenti, ai quali non facevano problema i guai che avevo combinato in precedenza. In quel posto aveva trovato ospitalità gente con storie assai diverse, molte cariche di dolore e di contraddizioni, alcuni avevano lasciato come me la loro terra e la famiglia”»

Ultima storia siciliana quella di due amiche marocchine: Nadia che da tempo risiede a Catania che ha un figlio, Becher, di 11 anni nato qui da noi e di Mariem, che ha due figli, Yosra e Yousef, che vanno in terza media e seconda elementare. Grazie all’associazione ‘Cappuccini’ che opera in un quartiere degradato del centro storico sono riuscite a sottrarre i figli al ricatto della delinquenza della zona e ad offrire loro un futuro. Quando uno dei volontari ha chiesto a Nadia perché si fidasse più diloro che delle persone della moschea che fedelmente frequenta, leiha risposto: «Perché siete miei amici».

Anche le altre storie narrano di incontri, di fughe, talvolta anche dal racket della prostituzione, di paura di non farcela, di permanenza in carcere, e di obiettivi raggiunti grazie alla mano tesa di qualcuno che ha avuto fiducia in loro. Bella e commovente quella di Bledar, un albanese giunto in Italia tanti anni fa che qui è divenuto sacerdote ed ora è responsabile di una parrocchia fiorentina.

Il libro raccoglie anche una introduzione di mons. Nunzio Galantino, Segretario generale della CEI ed una copiosa documentazione degli aspetti più controversi del fenomeno migratoria attuale: gli aspetti storici, i dati demografici, le provenienze etniche e religiose, E poi le risposte alle domande più pressanti: E’ vero che ci tolgono il lavoro? E’ vero che ci pagheranno le pensioni? E’ vero che commettono tanti reati?

Il libro si chiude con quattro interviste che illustrano altrettanti aspetti particolari: monsignor Silvano Maria Tomasi, per molti anni osservatore della Santa Sede presso le Nazioni Unite a Ginevra e attualmente segretario delegato del Pontificio Consiglio Giustizia e Pace, evoca la necessità di un’assunzione di responsabilità comune e di interventi che creino le basi per uno sviluppo in grado di frenare le migrazioni. E ricorda l’importanza del lavoro educativo che la Chiesa svolge, sulla scia delle parole e dei gesti forti di papa Francesco.

Carmine Di Martino, docente di Filosofia teoretica all’Università Statale di Milano, che accompagna il lettore alla scoperta di un “io” che non può rinunciare al “tu”, se davvero vuole essere e compiersi. L’incontro con lo straniero è un’occasione per riscoprire che dell’alterità non possiamo fare a meno, che ogni persona “è” rapporto. L’identità non è qualcosa di statico e autoreferenziale

Fausto Bertinotti, sindacalista e politico di lungo corso, animo inquieto e sempre alla ricerca del nuovo, non a caso presidente di una fondazione che si chiama Cercare Ancora, denuncia i limiti dell’azione europea nei confronti dei migranti, sollecita un nuovo protagonismo dal basso per cambiare le logiche mercantilistiche che impediscono di guardare con realismo e lungimiranza a quanto sta accadendo. Indica nell’amore una dinamica necessaria per affrontare l’arrivo dei migranti. Amore e lotta per l’uguaglianza debbono camminare uno accanto all’altra.

Wael Farouq, egiziano, intellettuale musulmano, docente di lingua e letteratura araba all’Università Cattolica del Sacro Cuore di Milano e all’Università Americana del Cairo, riflette sulle dinamiche che muovono milioni di persone ad attraversare il Mediterraneo. E sul contributo che possono dare per contrastare il virus del radicalismo che ha messo radici nel Vecchio Continente. La prima linea di resistenza contro il terrorismo islamico? Sono i musulmani europei. I migranti che dai Paesi arabi vengono in Europa non cercano solo un benessere economico. Inseguono il sogno di una società libera, dove i diritti umani sono rispettati e a disposizione di tutti, indipendentemente dalla fede religiosa. Ma l’Europa è ancora capace di rispondere a questa attesa?

“Non bisogna mai dimenticare che i migranti, prima di essere numeri, sono persone, sono volti, sono storie”. Queste parole pronunciate il 16 aprile 2016 da papa Francesco in occasione dell’incontro con i profughi nell’isola greca di Lesbo, sono la bussola che ha guidato il lavoro dei tanti che hanno curato la mostra e il libro. Ma sono anche il monito più forte che deve interpellare tutti.

 

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