“Speriamo che assumere il giudice Livatino come modello ci aiuti e ci incoraggi”. Le parole dell’Arcivescovo di Agrigento cardinale Francesco Montenegro

Nella splendida cornice della chiesa di sant’Alfonso ad Agrigento si è svolta ieri3 ottobre 2018 la Sessione pubblica di chiusura del Processo diocesano di Canonizzazione del Servo di Dio Rosario Angelo Livatino, il giudice ucciso dalla mafia 21 settembre del 1990.

Al tavolo della presidenza, l’Arcivescovo di Agrigento, il cardinale Francesco Montenegro, con accanto il postulatore della causa don Giuseppe Livatino e il giudice delegato, don Lillo Maria Argento. Alla presenza di Sindaco, Prefetto e Questore, di tanti conoscenti e collaboratori del giudice e di una nutrita schiera di ospiti della Associazione Casa Rosetta di Caltanissetta, guidata da don Vincenzo Sorce, si è svolta una cerimonia dal vago sapore retrò, come forse solo la Chiesa Cattolica conserva. Sul tavolo facevano bella mostra i plichi in duplice copia da inviare a Roma dove il processo continuerà presso la Congregazione per la causa dei santi, con le testimonianze di oltre 40 persone che in vario modo hanno ricordato e sottoscritto le doti umane e cristiane del giudice. Alla fine il tutto è stato legato con cordicelle apposite e sigillato con la ceralacca. Riti che forse si possono riscontrare solo nei film.

La cerimonia è stata molto toccante per le parole con cui ha introdotto la mattinata il Cardinale Francesco Montenegro: “Avviando la causa di beatificazione di Livatino si è voluto mettere in risalto l’incidenza che ha avuto in lui la forza dell’incontro con il Signore; le indagini svolte fin qui non hanno inteso soffermarsi sul modo in cui è morto ma su come ha vissuto; il nostro obiettivo non è stato quello di capire da chi o per quale ragione sia stato ucciso questo giovanissimo operatore della giustizia ma per chi ha speso tutta la sua vita. Questo è stato il significato del lavoro fatto, potremmo dire, partendo dal basso, dall’ambiente natale dove ha mosso i primi passi a quello del lavoro fino ad avvicinarci a quello delle persone che ne hanno determinato la triste fine”.

La domanda ricorrente tra i presenti era: e adesso? In tutti vi era l’aspettativa di una rapida e positiva conclusione della seconda fase. Ma il postulatore, don Giuseppe Livatino ha volutamente gettato acqua sul fuoco: “Non è possibile prevedere né l’esito né i tempi. Proprio questi saranno lunghi per il semplice motivo che a Roma sono numerose le cause istruite e tutte richiedono una attenta valutazione”.

E proprio su questo aspetto è tornato il cardinale Montenegro: “Di certo il lavoro fatto è utile per almeno due motivi: il primo riguarda il messaggio che arriva al nostro territorio da tutta questa vicenda. Se per decenni siamo stati inquinati dalla mafia e dalla mentalità mafiosa – e in parte continuiamo ad esserlo – la figura del giudice Livatino ci ricorda che la mafia si può vincere solo se ci sarà l’impegno e il coraggio di tutti a dire “no” al compromesso, ai favoritismi; se ci sarà una lotta ferma contro ogni forma di corruzione; in definitiva se ci sarà da parte di tutti uno scatto di dignità per il riscatto di questa terra già tristemente penalizzata dalle mafie. Livatino per noi è il simbolo di una società cristiana che si vuole opporre al male e decide di sconfiggerlo con una vita buona animata dalla giustizia e dalla carità. In questo abbiamo ancora tanto da fare in termini di impegno e di formazione delle coscienze; speriamo che assumere il giudice Livatino come modello ci aiuti e ci incoraggi”.

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